Sabato 06 Settembre 2025 | 12:30

L’attaccamento alla vita: il 2 novembre legato al senso della fede

 
Leo Lestingi

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Leo Lestingi

L’attaccamento alla vita: il 2 novembre legato al senso della fede

Da diversi anni ormai circola un’espressione in precedenza poco immaginabile. Per annunciare la morte di un malato grave o di una vittima di un incidente, si ricorre alla perifrasi «non ce l’ha fatta»

Sabato 02 Novembre 2024, 13:52

Da diversi anni ormai circola un’espressione in precedenza poco immaginabile. Per annunciare la morte di un malato grave o di una vittima di un incidente, si ricorre alla perifrasi «non ce l’ha fatta»; essa corona, con rammarico, quanto era stato comunicato nei giorni precedenti, dicendo «sta lottando…» o «ha lottato…».

Tempo fa molti hanno prospettato il periodo della pandemia in cui siamo stati immersi come un ammonimento: occorre lasciar cadere l’illusione di ritenersi perennemente sani all’interno di un mondo malato, per ripetere le parole pronunciate da papa Francesco in quella fase così critica.

Mi domando: l’invito riguarda anche l’abbandono di un linguaggio legato alla prestazione, esteso fino all’atto di congedarsi da questa vita? Nel mondo lavorativo, là dove domina la logica dell’investimento, è richiesto di «fare»; ci sono obiettivi da raggiungere, si programma e si esige dai dipendenti e collaboratori di essere all’altezza di quanto loro richiesto. Si apre, così, l’alternativa fra l’orgogliosa soddisfazione di essere riusciti a conseguire quanto prefissato e la frustrazione di non avercela fatta: la dinamica competitiva produce inevitabili scarti.

Questa forma mentis sembra essersi trasferita persino in un àmbito, per definizione, estraneo a ogni produttività. Di fronte alla morte, se non ora ma certo in un imprecisato domani, l’esito ultimo sarà comunque quello di «non farcela». La diffusione di quelle perifrasi su citate sembra inversamente proporzionale alla quasi totale scomparsa del termine «agonìa». La parola «coma», che ha la radice di «sonno» (in greco koma), è di uso ricorrente, compresa l’accezione farmacologica; di agonìa, in greco «lotta», si sente, invece, parlare sempre meno. L’espressione indica la fase che precede immediatamente la morte, e si riferisce ad una lotta inevitabilmente contraddistinta da un «non farcela».

Còlto sotto questa angolatura, il destino umano è perdente; il ricorso al termine «lotta», per indicare un’inevitabile sconfitta, ma un tempo era spesso impiegato pensando a un «oltre». Una preghiera cattolica, in passato assai popolare, terminava con queste parole: «Gesù, Giuseppe e Maria, assistètemi nell’ultima agonia; spiri in pace con voi l’anima mia. Amen». Resta incerto circoscrivere la consapevolezza antropologica e teologica presente in una formula nella quale la rima baciata ricopre una funzione trainante; resta, comunque, il fatto che il verbo «spirare» è qui riferito all’anima, cioè alla realtà che, lungi dallo sperimentare la morte, si credeva fermamente avviata a trovare un riposo eterno in Dio.

Il riferimento all’agonia che chiude la preghiera rivolta alla santa Famiglia corrisponde alle parole finali dell’Ave Maria: «Adesso e nell’ora della nostra morte». Le due più diffuse preghiere cattoliche, il Padre nostro (ovviamente comune a tutti i cristiani) e l’Ave Maria, terminano rispettivamente con le parole «male» e «morte». Hic Rhodus, hic salta: un salto che nessun vivente è in grado di fare con le proprie forze; soltanto grazie alla fede si crede che il «non farcela» si capovolga nella porta d’ingresso della vita.

Il cosiddetto Simbolo niceno-costantinopolitano (il «Credo») snoda le sue proposizioni introducendole tutte con il verbo «credere»; quando giunge alla resurrezione dei morti e alla «vita del mondo che verrà», il verbo, però, cambia repentinamente: ora si dice «aspetto». Forse l’unico modo per credere nella vita eterna è aspettarla; e l’attesa, lo si sa, la si vive, senza che sia concesso tematizzarla.

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