Molti italiani hanno un ricordo personale di Napolitano. Questa ampiezza di relazioni è uno dei tratti della sua grandezza e della forza della politica di massa che era composta di capi, simboli, riti, radicamento capillare e soprattutto legami umani e sociali, il collante di tutto.
Nel mio caso specifico ho varie volte incontrato il Presidente e Senatore a vita. Il momento più emozionante fu quando accettò, già molto provato, il mio invito a discutere di Croce, del volume Etica e politica (Bibliopolis, 2015) alla Treccani. Era un freddo pomeriggio invernale, non mi resi conto del tutto dell’unicità del momento.
Ad ascoltare in prima fila c’era Emanuele Macaluso, Napolitano a presiedere un tavolo di prestigiosi relatori. Anche questo piccolo episodio restituisce intatta la statura e la personalità dell’uomo. Domenica mattina sono passato dalla camera ardente allestita al Senato per l’ultimo saluto. Un migliaio di persone in fila, non di più, un corteo «particolare» e raccolto in cui si riconoscevano a vista militanti, intellettuali e dirigenti dell’area migliorista del vecchio Pci, funzionari dello Stato di vario rango, alcuni passanti.
Alla severità funerea era misto un colore d’altro tempo, un «mondo di ieri». Un clima del genere forse accompagnò la pompa funebre di Francesco Giuseppe e con essa il tramonto della mitteleuropa.
Anche la cultura che fu di Napolitano è compiutamente al tramonto, la lezione tuttavia mantiene un’impronta viva e non può essere banalizzata come si prova da più parti enfatizzandone il carattere «eretico». Eretico Napolitano non lo è mai stato. La sua apertura «liberale» e il suo terrore per il settarismo o le convulsioni identitarie hanno un netto carattere autobiografico in cui il rigore e lo sforzo di «vedersi da fuori», spesso attraverso lo sguardo delle classi dirigenti occidentali che interrogano l’talia sulle sue fragilità, sono scolpiti nel corpo attraverso una pressoché costante «sepoltura dell’io».
Un dato autobiografico che va assunto accanto al fatto che quanto di più originale è venuto dalla sua corrente «migliorista», a dispetto, sta proprio nel tentativo di produrre divergenze individuali dal centro, spostandosi lateralmente. Conato liberale, in alcuni casi (vedi Macaluso) libertario, che è il rovescio della medaglia di esperienze tragiche che certamente Napolitano ha portato con sé sino all’estremo. Questa inclinazione verso la «differenza» pur nutrendosi di materiali primitivi e familiari deve in effetti aver poggiato il suo carico più importante in un punto di svolta, da rintracciare, e in una più larga sindrome del rimorso («grave tormento autocritico» lo definì).
Sono più che certo che sia stato anche un perpetuo moto di fuga dal monolite dello stalinismo e da circostanze feroci, come l’esemplare assenso per la condanna capitale di Imre Nagy (giugno 1958) espresso dal gruppo dirigente del Pci e accompagnato dalla richiesta a János Kadar, formulata da Togliatti, di posticiparla rispetto alle elezioni italiane (maggio 1958).
Rispetto a fatti del genere non si può non avvertire il bisogno della fuga, anche in solitaria, se si pensa al sovietismo di altri amendoliani e di Amendola stesso. Ma veniamo al punto. La generazione di Napolitano del socialismo reale ha visto, nell’arco della stessa vita, sale da festa e sale da macello e da un certo punto in poi ha saputo fare i conti con le proprie responsabilità sentendo sulla propria pelle il peso diverso di «due concetti di libertà» (Isaiah Berlin), giungendo a un elegante manierismo liberale, in alcune sue vette liberista.
Una vicenda che non può essere banalizzata e che conserva un monito anche per chi resta.
Guai a sottrarsi dalla continua ricerca del pluralismo e delle differenze e dalla instancabile fuga da tentazioni settarie e identitarie.