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Puntiamo sulle comunità se vogliamo salvare le aree interne del Mezzogiorno

 
 Carlo Patrizio,  Urbanista, esperto di Rigenerazione urbana

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Carlo Patrizio, Urbanista, esperto di Rigenerazione urbana

Puntiamo sulle comunità se vogliamo  salvare le aree interne del Mezzogiorno

Esistono le ricette contro lo svuotamento dei territori del Sud, ma occorrono strumenti nuovi, saperi multidisciplinari e professionalità da sperimentare.

Domenica 13 Agosto 2023, 13:59

Dopo l’editoriale del direttore Oscar Iarussi sul Mezzogiorno delle «aree interne» (23 luglio), abbiamo pubblicato gli articoli dello scrittore Giuseppe Lupo, dell’economista dei trasporti Angela Stefania Bergantino, dell’economista Antonio Troisi, l’intervento del presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi e quello del sindaco di Moliterno e presidente della Comunità del Parco Nazionale Appennino Lucano Val d’Agri Lagonegrese, Antonio Rubino; poi l’articolo di Michele Lastilla. Oggi interviene l’urbanista Carlo Patrizio.

Il dibattito avviato sulle pagine della Gazzetta del Mezzogiorno dal suo direttore Oscar Iarussi ha il grande merito di riportare all’attenzione dei lettori un tema di importanza decisiva per l’evoluzione del nostro Paese, nella prospettiva del terzo millennio e delle sue sfide. È decisiva, a mio modo di vedere, perché affrontare il tema delle aree interne è un po’ come rispondere alle sfide poste dal progresso dell’intero Sud, anch’esso, a ben guardare, area interna dell’intero Belpaese. Il parallelismo tra aree interne e Mezzogiorno riecheggia infatti in tutti gli autorevoli interventi che hanno seguito il primo di Oscar Iarussi, il quale non a caso nel suo editoriale richiama la sempre attuale questione meridionale che con il passaggio dalla prima alla seconda repubblica si sarà pure trasformata nel suo simmetrico, cioè nella «questione settentrionale», ma che resta pur sempre la manifestazione fenomenica di una frattura tra l’Italia che va e un’altra Italia lontana che invece arranca e tarda.

Sono tra coloro che con fiero e ininterrotto orgoglio alimentano l’eterno ritorno estivo verso il nostro Sud accogliente da quando, studente fuorisede nell’urbe di fine Novecento, tra le ultime ferite brigatiste e i primi vagiti della Seconda Repubblica, ho cominciato a studiare da progettista le contraddizioni generate nelle trasformazioni urbane e territoriali dall’illusione di un sapere parcellizzato, nata e cresciuta in quel secolo breve e irrisolto che è stato proprio il ‘900.

La più esiziale delle quali mi sembra essere la seguente: si corre via dagli agglomerati urbani che stanno sulla collina come vecchi addormentati, per fermarsi nelle italiche città fordiste, di certo cablate, infrastrutturate, servite come si conviene nell’era delle connessioni globali epperò inospitali e difficili, dove si vive male e si respira peggio e da cui, nell’ora della pausa feriale, simmetricamente, si fugge per tornare in quelle aree interne che sole consentono a tutti noi di ricaricare le batterie per la resistenza invernale.

Erano quelli gli anni di una lettura edificante che tuttora suggerirei a tutti, Il Regionalismo dell’Architettura di Sergio Los, ed. F. Muzzio, in cui l’autore spende pagine asciutte, colte e profonde per convincere che se proprio non si può evitare di andar via dal proprio addormentato paese, almeno lo si faccia apprezzando lucidamente cosa esso abbia di peculiare e positivo che non si trovi in nessuna altra parte del mondo.

Ecco, questa originalità che si potrebbe definire luogo-specifica, è mia convinzione che risieda nella Comunità degli abitanti. Non nel senso che ogni comunità è diversa dalle altre – perché questo sarebbe ovvio – ma nel significato che nelle aree interne di cui si parla, a differenza delle città medio-grandi del Nord, esistono ancora le Comunità o almeno permangono tracce evidenti, ancorché talvolta sopite, della loro esistenza in vita. Nell’era del villaggio globale, ciò che ormai appare come una singolarità in via di estinzione è invece un poderoso punto di forza: non solo le metropoli, ma sempre di più anche le città medie, sono segnate da una soggettività immateriale, fatta di flussi, mercati, merci, energie e via di questo passo. Questi ultimi sono i veri soggetti che ne segnano il tempo, ne orientano il governo e che impongono i ritmi alle nostre giornate produttive.

Negli insediamenti interni invece, la soggettività è ancora saldamente nelle mani di una Comunità insediata, fatta di umani in carne ed ossa, non di flussi, certamente forse addormentata – ha detto bene Iarussi – eppure ancora viva, com’è vivo il fuoco sotto la cenere. Nelle aree interne, la prima e più efficace risorsa del patrimonio territoriale su cui puntare per il loro riscatto è l’identità condivisa, vero e proprio collante di ogni comunità, irripetibile valore che le consente di riconoscersi in quel suo luogo. In tal senso non c’è differenza tra le aree interne del Sud e quelle costiere, tra i piccoli borghi e le città più grandi: in tutto il Mezzogiorno i segni dell’azione insediativa e dei legami identitari con i propri luoghi, ancora rintracciabili in un tessuto relazionale pur fiaccato dalla marginalità, accomunano l’attenzione recente per le aree interne con le argomentazioni più antiche sulla questione meridionale.

Se dunque è ancora possibile cogliere i segni di una soggettività diversa, allora è urgente, per le aree interne, il superamento degli approcci area-based o place-based in favore di processi community-based. È la prima innovazione cui bisogna dar corso per poter andare oltre le legittime aspettative del PNRR: non progetti rivolti a singoli individui, magari dotati di opportuna copertura finanziaria, bensì processi di breve, medio e lungo periodo, concordati ed elaborati insieme a quel soggetto corale e plurale che custodisce la memoria di quel tale luogo, ne condivide l’identità territoriale e ne prefigura il futuro.

È di tutta evidenza che ciò imponga un radicale cambiamento tanto nell’approccio analitico, quanto nella sintesi progettuale e perfino nel processo metodologico. Occorrono cioè strumenti nuovi, saperi multidisciplinari e professionalità da sperimentare. Strumenti, perché il quadro normativo e legislativo in vigore è del tutto inadatto a sostenere e regolare i processi descritti; valga per tutti l’esempio del neonato Codice degli Appalti che se è in grado di disciplinare la realizzazione delle classiche opere infrastrutturali, nulla può rispetto alla necessità di regolare l’esecuzione di progetti che integrino anche azioni di carattere socio-culturale o socio-economico.

Saperi, perché se dai progetti unidimensionali occorre passare ai processi multidisciplinari, è evidente che architetti, urbanisti, ingegneri, conservatori, paesaggisti, pianificatori, tecnologi dell’edilizia non abbiano più le conoscenze e forse neanche le capacità necessarie. Per esempio, il mondo scientifico e professionale ancora dibatte su cosa sia correttamente da intendersi con l’espressione Rigenerazione urbana, mentre qui si prefigura la necessità di superare la dimensione urbana in favore degli strumenti, della scala e dei contenuti della Rigenerazione territoriale. Professionalità, perché i processi non si possono gestire con chi sa fare solo i progetti; occorrono competenze diverse, lo abbiamo già detto, ma chi, nell’attuale configurazione del sistema professionale, è in grado di assicurarle?

Si viene così a delineare un progetto complesso, anzi un vero e proprio e innovativo modello in cui hanno un ruolo fondamentale – o dovrebbero averlo – le Regioni del Sud, gli Enti Locali del Sud, le università del Sud, i giornali del Sud, il Terzo Settore del Sud, le istituzioni culturali del Sud. Un progetto per il quale o si fa quadrato o si fallisce tutti, un progetto che se riuscisse, farebbe da apripista per il rinnovamento reale di tutto il Mezzogiorno, non solo delle sue aree interne. E sarebbe un imperdibile occasione per restituire alla propria terra le competenze di chi da essa è andato via, avendole dato però un appuntamento senza data, perché «come e quando non lo so, ma so soltanto che ritornerò».

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