Le ultime settimane hanno visto l’acuirsi del cosiddetto scontro politica - magistratura. Una nota anonima di Palazzo Chigi ha addirittura ipotizzato che «una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee». Accusa questa gravissima che però, facendo seguito all’enfasi sui casi Santanchè, Delmastro e La Russa, riguarderebbe, eventualmente, non l’intera magistratura, ma solo quella inquirente, cioè i Pubblici Ministeri, a torto o a ragione accusati, dagli inquisiti di turno e dai loro sodali di governo, di comportamento politicamente orientato. Se ripercorriamo la nostra tormentata storia giudiziaria, da «mani pulite» in poi, vediamo che - effettivamente - la quasi totalità degli scontri tra azione giudiziaria e politica, almeno negli ultimi trenta anni, si è consumata nella fase inquirente, cioè dall’avvio delle indagini alla (eventuale) richiesta di rinvio a giudizio, piuttosto che sui processi e sulle relative sentenze: non è un caso se tutti ricordiamo i nomi dei componenti del pull della Procura di Milano, o di Falcone e Borsellino, e non quelli dei giudici che hanno celebrato i relativi processi.
Dobbiamo dedurne che la «separazione delle carriere» sia già in atto, con una selezione antropologica che orienterebbe i magistrati più ideologicamente condizionati nelle Procure, e quelli più correttamente equilibrati nei Collegi giudicanti? Evidentemente non è così! C’è un unico, storico e ben noto, quanto costantemente sottovalutato, motivo: l’eccessiva durata dei processi.
Se tra la fase di avvio delle indagini e l’emanazione della sentenza (troppo spesso di proscioglimento per prescrizione) passano molti anni, tutto, dall’opinione pubblica alle conseguenze sulla vita degli inquisiti e accusati (anche, soprattutto, se innocenti), è determinato dal PM della fase inquirente, che si trova a ricoprire, in termini assolutamente «patologici», un ruolo, temporaneo ma comunque eccessivo quanto improprio, di «giudice unico», provvisorio certo, ma di una provvisorietà che può durare molti anni. Ricordo un talkshow televisivo, dell’epoca «mani pulite», in cui un PM accusato di ricorso troppo disinvolto alla carcerazione preventiva, si difendeva affermando «almeno così i colpevoli un po’ di prigione la fanno»!
Bestemmia giuridica, certo, ma non priva di fondamento, se è vero che, grazie all’eccessiva lunghezza dei procedimenti ed all’attuale normativa sulle prescrizioni, il rischio di giungere a sentenze passate in giudicato, e quindi effettivamente eseguite è, soprattutto per i «colletti bianchi», estremamente basso. Qualche dato: il numero di detenuti nelle carceri italiane è simile a quello della Germania (38.000 contro 44.000). In Italia però i detenuti per reati economici e finanziari sono solo 345 (appena lo 0,9%!), in Germania 4.604 (più del 10%). Di contro quelli condannati per reati di droga sono il 32% in Italia, il 14% in Germania. Davvero possiamo pensare che il danno sociale causato dai reati di droga sia da noi 35 volte maggiore di quello provocato da corruzione, concussione, truffa, evasione fiscale, ecc.? Il fatto è che «giustizia ritardata è giustizia negata», e che è molto più facile raggiungere la prescrizione se si è compiuta una complessa truffa finanziaria, che non se si è colti in flagrante con un carico di eroina; la durata di un processo penale in Italia, nei tre gradi di giudizio, è di circa quattro anni, evidentemente con valori molto più bassi per i reati «comuni» (sia per la semplicità del quadro accusatorio, sia - spesso - per minore possibilità, per gli accusati, di ricorrere a supporti difensivi più qualificati e costosi) ed ovviamente più elevata per quelli economici e finanziari, o comunque non da «criminalità comune».
Supponiamo, per un momento, che le vicende Santanchè, Delmastro e La Russa giungano a rinvio a giudizio, o ad archiviazione, nei prossimi tre mesi, ed all’eventuale sentenza nei 12 mesi successivi. Ciò ridimensionerebbe a livelli fisiologici l’attuale ruolo dei relativi PM (inducendo probabilmente qualcuno ad una maggiore prudenza), restituendo alla magistratura giudicante l’altrettanto fisiologica centralità. Troppo spesso sentiamo gli accusati affermare (a volte ipocritamente) la loro piena fiducia nell’operato della magistratura, nel mentre i loro collegi difensivi studiano ogni possibile forma di allungamento dei tempi processuali (ricordate i «legittimi impedimenti» di Berlusconi?). Tra gli obiettivi del PNRR c’è il sostanziale accorciamento dei tempi della giustizia (penale ed anche civile, ambito questo altrettanto grave, sia pure con differenti modalità ed effetti): riuscirà la riforma in discussione a perseguire tali risultati? C’è senz’altro da augurarselo, anche se - al momento - alcune iniziative (come il collegio di tre magistrati per deliberare le misure cautelari) in mancanza di un sostanziale incremento delle risorse, sembra andare in tutt’altra direzione.