Nel 1933, in piena Grande Depressione, fu varato, negli Stati Uniti, il Glass Steagall Act, con l’obiettivo di porre un freno all’attività speculativa, distinguendo fra banche di credito ordinario e banche di investimento, anche mediante la costituzione di un fondo per le assicurazioni. Nel 2008-2009, l’amministrazione Obama non ha ritenuto di dover replicare questa distinzione (pure molto opportuna) e si è limitata a introdurre norme più severe per la tutela dei risparmiatori. Questa distinzione rinvia a discipline di regolamentazione più severe per le banche di investimento, ovvero per quelle che assumono rischi speculativi.
Sembra, al momento, temendo però di essere smentiti, che queste norme stiano solo parzialmente funzionando, e che quello che si sta facendo (ci si riferisce al sostanziale salvataggio pubblico di Credit Suisse) è più dovuto a interventi pubblici dettati da paura che da un ordinato e razionale quadro regolatorio.
La paura si chiama contagio, ovvero la possibilità che il fallimento di una banca (per esempio, la Silicon Valley Bank) trascini con sé il fallimento di altre banche, dunque la caduta degli investimenti privati e la recessione, come accaduto nel 2008. Vi è anche il timore che, come accaduto nella doppia crisi del 2008 e del 2012-2013, che la restrizione del credito e la necessità di aiutare banche fallite riduca il tasso di crescita e si trasformi in crisi dei debiti sovrani.
Il Premio Nobel Paul Krugman ha messo in luce il fatto che, soprattutto nei settori più innovativi dell’economia statunitense, si formano lobby della finanza, che chiedono e ottengono sempre maggiore deregolamentazione.
La crisi finanziaria attuale è causata, in ultima analisi, dai seguenti fattori: 1) la caduta della domanda aggregata su scala globale. Si tratta di un effetto della globalizzazione, alla quale il reshoring (la de-globalizzazione) non ha posto, al momento, adeguato rimedio. La caduta della domanda aggregata si manifesta nella contrazione dei consumi su scala globale – a sua volta dipendente dalla riduzione della quota dei salari sul Pil – e dalla contrazione degli investimenti, derivante dalla crescente incertezza (per effetto soprattutto della guerra in Ucraina) e dall’aumento dei tassi di interesse Fed e BCE. A ciò si aggiunge la riduzione della spesa pubblica, con la sola accezione delle spese militari. È perciò evidente che se cade la domanda aggregata, consumatori e imprese domandano meno credito a ragione di aspettative pessimistiche sull’andamento dei guadagni e, al tempo stesso, aumentano le insolvenze, per il fatto che le imprese vendono meno e i consumatori guadagnano meno (come conseguenza dell’inflazione); 2) la deregolamentazione dei mercati finanziari. Questa linea di policy spinge gli Istituti di credito ad assumere rischi crescenti, secondo uno schema Ponzi di alternanza di euforia e panico. Si spezza, cioè, il legame con la cosiddetta economia reale e aumenta il peso del debito che grava sulle banche, fino a portarle in perdita e nella necessità di avvalersi di aiuti da parte dello Stato.
Questo schema interpretativo mette in evidenza l’errore logico e fattuale che sta alla base di molte teorie economiche neoliberiste che hanno provato a dimostrare (senza tuttavia riuscirci) che la finanza deregolamentata è necessaria per un buon funzionamento delle economie di mercato. L’economista Fama, in particolare, ha elaborato un teorema stando al quale l’emissione di azioni, e il loro acquisto, in un mercato privo di norme, consente alle imprese di accrescere e diversificare le fonti di finanziamento, contribuendo, per questa via, a finanziare gli investimenti, l’attività produttiva e la crescita economica.
Hanno per contro ragione gli economisti keynesiani quando rilevano che la finanza risente dell’economia reale – nel senso che al fondo dei fallimenti bancari di questi giorni vanno rintracciate le dinamiche della domanda di beni di consumo e di investimenti – e che, dunque, è la domanda di credito a determinarne l’offerta.