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Dal Covid alle frane, se la natura sfida l’intelligenza umana

 
Gino Dato

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Gino Dato

Frana Ischia, 2022

Il delitto più grave è l’inadeguatezza a guidare una palingenesi del sociale.

Domenica 27 Novembre 2022, 14:24

20:42

Non ci sono dubbi né esitazioni: è una sfida totale all’intelligenza quella che l’uomo deve affrontare quando l’imprevedibile prende il sopravvento, come è accaduto a Ischia, nel declinare la tragedia e la distruzione.

La cornice storica non è delle più incoraggianti. Prima la pandemia, che ha chiamato in gioco la sorte, ma anche la capacità delle scienze e della medicina di costruire delle barriere solide al dilagare del contagio. Poi la guerra fratricida, che ha messo a dura prova la capacità dell’uomo di produrre humanitas e di capire dove volgono la barra i prepotenti del mondo. Ma se è la natura a lanciare segnali forti, la questione non è solo quella di inventare la terapia o la pace salvifiche, ma di sovvertire gli strumenti di analisi e di intervento.

Perché non siamo più in grado di prevedere ciò che esplode con una furia inarrestabile? Quante sono e saranno le Ischia che sconvolgeranno un paese che si sforza di essere normale? Analisi, previsioni, rimedi. Gli scienziati sociali dovranno pur spiegare alla gente comune che cosa si è interrotto nella concatenazione logica fra i tre elementi che caratterizzano l’indagine degli uomini sul reale, sia questo costituito dai fenomeni fisici o da quelli morali, e la capacità conseguente di intervenire.
Non funzionano le analisi perché non sappiamo più indagare? Oppure le previsioni non sanno anti vedere e prevenire? O i rimedi non rimediano più? Vediamo: la questione è mal posta. Dovremmo dire meglio: le analisi servono a prevedere quel che serve a rimediare, appunto a modificare una condizione. Se il buon senso ci aiuta e ci soccorre, le crisi che investono il corpo sociale ma anche l’ambiente sembrano offrirci la dimostrazione di questo fallimento dell’uomo.

L’impressione è che, nella concatenazione analisi-previsioni-rimedi, l’atteggiamento adottato sia assai simile allo strumentario che si impiega nei confronti dei fenomeni fisici ed atmosferici, dove assistiamo ormai da anni a un vagolare dell’uomo di fronte all’imperversare dei cataclismi, eventi improvvisi che sconvolgono l’ambiente e che lasciano l’uomo fuori del controllo, frustrato nella sua incapacità di porre argini efficaci. E ancor più colpevole se non ha messo in atto fino a quel momento il rispetto e la tutela dell’ambiente.

Fuori da ogni strategia e schieramento, il fallimento convoca sul banco degli imputati una serie di scienziati e di ruoli sociali, in una vasta gamma che trascorre dai sociologi agli economisti ai politici. I primi appaiono ormai incapaci persino di descrivere gli umori reali e i comportamenti privati e pubblici di una società in movimento, che trasmigra e che è liquida, come dice il sociologo Bauman, tanto per richiamarci alle metafore di mutamento che caratterizzano le più recenti ricerche.
Ma anche gli economisti falliscono e vagolano nel buio, non solo perché l’econometria è arida ma soprattutto perché non hanno la capacità di leggere nei bisogni, al di là del puro scambio tra domanda e offerta, tra ricchezza e povertà, i moti dell’animo, le pulsioni che imprimono un altro percorso alla storia. E neanche i pedagogisti, nonostante i saperi verdi, riescono a concepire una pedagogia della crisi.

Abbiamo lasciato per ultimi i politici perché, non appartenendo alla categoria degli scienziati, che dovrebbero avanzare provando e riprovando, qui, nella loro categoria, si compie il delitto forse più grave, quello che attiene alla incapacità appunto di saper guardare avanti e innovare: attraverso le analisi, le previsioni, la scelta di misure alternative, la capacità di costituirsi in classe dirigente che additi percorsi virtuosi al disordine di valori e di mete che l’atomo individuale ormai persegue esclusivamente per i suoi fini personali.

Il delitto più grave diventa allora proprio l’inadeguatezza a guidare una palingenesi del sociale.

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