Da qualche giorno stiamo vedendo le prime immagini trasmesse dal telescopio spaziale James Webb, partito dalla nostra Terra il giorno di Natale del 2021 e accomodatosi, dopo un viaggio di circa sei mesi, in un punto dell’Universo chiamato Lagrange 2, a 1,5 milioni di km da qui, spalle al Sole, alla Terra e alla Luna, protetto da uno scudo termico grande più o meno come un campo da tennis, e dispiegati i 18 specchi patinati d’oro così da osservare la profondità del tempo. Se ciò che abbiamo già osservato era non più che il risultato di un test per capire che tutto funzionasse come da protocollo, cosa potremo attenderci nei prossimi vent’anni, la speranza di vita di questo autentico, fenomenale gioiello tecnologico?
La notizia è stata commentata anche sulle colonne di questo giornale, non vogliamo tornarci solo ripetendo ciò che è già stato scritto con competenza e più che giustificata attenzione. Quel che è certo è che sapremo di più, vedremo meglio, scopriremo quello che non conoscevamo, dovremo – probabilmente, fortunatamente – rivedere alcune nostre convinzioni, ciò che sembrava acquisito tornerà in discussione, quello che era stato escluso, magari, troverà nuove convinzioni. È così che procedono la ricerca e la conoscenza scientifiche, come nelle parole che Brecht mette in bocca a Galileo: «Sì, rimetteremo tutto in discussione. E non procederemo con gli stivali delle sette leghe, ma a passo di lumaca. E quel che troviamo oggi, domani lo cancelleremo dalla lavagna e non lo riscriveremo più, a meno che lo ritroviamo un’altra volta. Se qualche scoperta soddisferà le nostre previsioni, la considereremo con speciale diffidenza».
Sicché più che la diffidenza, per ora e comprensibilmente, a prevalere è la meraviglia, l’emozione e, in quasi tutti i commenti, il riconoscimento di una intrinseca bellezza (magari ci torniamo in un prossimo contributo) di ciò che si è rivelato alla vista del JWST e, tramite rielaborazione alfa-numerica, alla nostra. Reazioni più che prevedibili, eppure, a pensarci un attimo in più, altrettanto curiose. L’emozione. Leggendo e seguendo la stampa tradizionale, saltando qua e la tra qualche social, scorrendo moltissimi post dedicati dai non pochi addetti, proprio tra questi, più che il razionale racconto di ciò che è accaduto – la cronaca oggettiva delle prime osservazioni – sono emersi i sentimenti personali, i ricordi fanciulleschi di quando ci si sdraiava sull’erba a guardare il cielo stellato nelle notti d’estate (cfr. l’articolo di Carlo Rovelli sul “Corriere della Sera” del 13 luglio), le emozioni collettive, un moto genuinamente sentimentale che è sembrato anche rafforzare il senso di appartenenza della comunità scientifica. A me pare non solo comprensibile, ma felicemente liberatorio. Troppo spesso, infatti, tra coloro che la scienza si occupano di comunicarla (forse più che tra coloro che la fanno in laboratorio o sul campo), si percepisce una sorta d’imbarazzo nell’esibire quell’insieme emozionale che, in quanto tale, dovrebbe essere escluso dal dispiegarsi del metodo scientifico. Un cedimento della ragione al manifestarsi delle passioni. Un errore di metodo.
Ma leggiamo quello che Niels Bohr, il padre della meccanica quantistica, raccontava a Jerome Bruner, uno dei grandi protagonisti della psico-pedagogia del ‘900, passeggiando in Danimarca nei pressi del castello di Kronborg, a Elsingor: «Non è strano quanto cambi questo castello non appena uno pensa che Amleto è vissuto qui? Come scienziati noi crediamo che un castello sia fatto di sole pietre e ammiriamo il disegno secondo cui l’architetto le ha messe insieme. I sassi, i tetti verdi con la loro patina antica, le sculture lignee della cappella: il castello è tutto qui. Il fatto che Amleto vi sia vissuto non dovrebbe cambiare nulla; invece cambia tutto, e completamente. Improvvisamente le mura e i bastioni parlano un’altra lingua. Il cortile diventa un mondo vero e proprio; un angolo buio ci fa pensare alle oscurità dell’animo e noi sentiamo il monologo di Amleto: “Essere o non essere?”».
Nella ricerca della «verità» qualche volta ci si distrae dall’evidenza per cui le cose «sono», ontologicamente, quanto «significano», in quell’incessante processo comunicativo in cui siamo tutti coinvolti: con poca o nessuna possibilità di distinguere facilmente l’osservazione obiettiva dalle passioni, le aspettative, le convinzioni che precedono il gesto di puntare il telescopio verso il cielo. «Non dovrebbe cambiare nulla, e invece cambia tutto, e completamente»: è importante tenerlo… a mente?! Comunque, sempre ricordando la lezione del Galileo di Brecht: «Sì rimetteremo tutto in discussione… e se qualche scoperta soddisferà le nostre previsioni, la considereremo con speciale diffidenza». Anche indugiando, nostalgici, al tempo in cui ci sdraiavamo sull’erba ad osservare le stelle cadenti. Come faremo tutti, come sempre sorridendo d’emozione, nelle notti di agosto.