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A Venezia una «Biennale» di guerra

 
Pietro Marino

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Pietro Marino

A Venezia una «Biennale» di guerra

Cecilia Alemanni, direttrice della Biennale e «This is Ukraine»

Dal 23 aprile spazio al «dramma»: una foto di una bimba sfuggita alle bombe. Tra i protagonisti Abramovic, Hirst, Eliasson

Giovedì 21 Aprile 2022, 14:20

È sorta una Piazza Ucraina a Venezia, nei Giardini della Biennale d’arte che inaugura sabato 23 aprile la sua 59ma edizione. Tanti sacchi di sabbia si accumulano nello spazio adiacente al Padiglione Centrale, a proteggere un ideale monumento dalle bombe. L’installazione si propone come «piattaforma di solidarietà» del mondo dell’arte, e dei responsabili della Biennale, alla nazione aggredita e martoriata. È stata ideata dai tre curatori del padiglione dell’Ucraina (dove è prevista una installazione dell’artista Pako Maklov bloccato a Kiev) e realizzata da una architetta ucraina, Dana Kasmina. Intanto, prima di arrivare all’Arsenale – l’altra sede della Biennale - si distende per 50 metri sulla Riva degli Schiavoni la gigantografia di Valerija, una bambina ucraina (nata nello stesso paese del presidente Zelenskyi) sfuggita alle bombe. Ha eseguito la foto e la sta portando in giro per l’Europa JR, il famoso street artist francese. È una delle grandi firme - con Marina Abramovic, Damien Hirst, Olafur Eliasson – che partecipano ad una mostra che si apre dal 23 aprile nella Scuola Grande della Misericordia, insieme con artisti ucraini che hanno mandato opere «dal fronte».

«This is Ukraine / Defending Freedom» è il titolo della rassegna organizzata dalle istituzioni d’arte di Kiev – fra cui la Fondazione di Victor Pinchuk, il noto imprenditore e collezionista ucraino che negli anni scorsi aveva lanciato da Venezia un premio per la «Next Generation». Al rilancio per l’Ucraina corrisponde la clamorosa assenza della Russia. È chiuso lo storico padiglione progettato nel 1913 da Alexei Sushev (l’architetto della Chiesa Russa di Bari), riaperto dal 1956 anche in tempi di guerra fredda. Non per sanzioni o censure occidentali, ma per decisione dei due artisti che dovevano esporre, Kirill Savchenkov e Alexandra Sukhareva (giovani esponenti dell’avanguardia moscovita) e del curatore, il lituano Raimundas Malasauskas. «Non c’è posto per l’arte quando i civili muoiono sotto le bombe, quando la popolazione ucraina si nasconde nei rifugi, quando i dissenzienti russi sono ridotti al silenzio» – così aveva dichiarato coraggiosamente Kirill su Instagram a febbraio (ricevendo 3617 likes prima di bloccarsi, e chissà che fine ha fatto).

La guerra di Putin ha impresso una svolta imprevista e un effetto indesiderato ad una edizione della Biennale che già la pandemia aveva costretto al rinvio (doveva tenersi nell’estate del 2021). Aveva tutt’altre intenzioni il progetto elaborato dalla direttrice Cecilia Alemani – la nota curatrice italiana che vive e si è affermata a New York (col marito Massimiliano Gioni) e fra l’altro ha diretto il Padiglione Italia nella Biennale del 2017. La rassegna ideata da lei annunzia sin dal titolo favolistico, “Il latte dei sogni” (da un racconto anni ‘50 di Leonora Carrington) la volontà di respirare in libertà, di «stare insieme» dopo le chiusure del tempo pandemico. Via quindi l’arte di realismo sociale e politico (l’«artivismo» di cui scrive Vincenzo Trione in un recente saggio), limitati i linguaggi «freddi» di videoarte, arte concettuale e digitale. Largo alla fisicità della pittura e delle installazioni (con 5 «capsule» interdisciplinari) per esplorare ed esaltare «metamorfosi dei corpi e delle definizioni dell’umano».

Una scelta di prevalente taglio surreal-pop, che rilancia in chiave d’immaginario il pensiero post-antropocentrico: per nuove relazioni, mutazioni e simbiosi fra i diversi corpi della Natura, animali e vegetali. Con dichiarato riferimento alle profezie di studiose che hanno predicato la fine della centralità dell’uomo, come Donna Haraway, Marina Warner, Rosa Braidotti. «Uomo», nominativo maschile. Anche per questo parla al femminile «il latte dei sogni»: dei 213 «invitati», 190 sono donne. I Leoni d’Oro alla carriera sono per la tedesca Katharina Frisch e la cilena Cecilia Vicuna. Ben più dell’altra metà del cielo che fu rivendicata da Lea Vergine. Ma la liquidità metamorfica mescola generi culturali e tempi storici. Nella lista figurano protagoniste delle avanguardie del ‘900 (da Sonia Delaunay a Niki de Saint Phalle) insieme ad attrici e cantanti come Josephine Baker, Violeta Parra. Simmetricamente, tra i 26 i nomi italiani, 14 sono di artiste scomparse. C’è persino Eusapia Palladino, la veggente ignorante di Minervino Murge che attirò l’immaginazione della nostra Chiara Fumai. Quattro -cinque i nomi giovani; sembra emergere Giulia Cenci, toscana ad Amsterdam.

Resiste sul maschile, fra le 80 rappresentanze nazionali presenti in questa Biennale, il Padiglione Italia all’Arsenale. Ma anche qui con una novità assoluta. Per la prima volta nella sua storia è un solo artista a rappresentarci: Gian Maria Tosatti, il valente outsider romano - napoletano che ha sbancato il sistema nazionale (è anche fresco direttore artistico della Quadriennale). Lo ha scelto il curatore Eugenio Viola, napoletano anche lui, asceso dalla gavetta nel Madre ad esperienze internazionali, da Singapore a Bogotà. Due voci del Sud per allineare il nostro Paese ai trend dell’arte occidentale. Di apparenza favolosa anche il titolo proposto da Tosatti: «Storia della notte e destino delle comete». La notte sembra quella del declino industriale del Paese e insieme della pasoliniana «morte della lucciole»; le comete annunciano speranze – non so in qual modo visivo. Un progetto da arte totale, il più ambizioso sinora osato da un artista che abbiamo seguito, anche sulla «Gazzetta», sin da quando era semisconosciuto. Non sarà facile, già fioccano dubbi e contestazioni. Proveremo a capire da vicino, nei giorni di Venezia, di quale latte possono nutrirsi i nostri sogni e quali destini ci annunciano le comete dell’arte.

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