La Russia ha già vinto la guerra. Ma non quella orribile scatenata da Putin contro l’Ucraina. La si trova fra le pagine dei grandi classici della letteratura ottocentesca, cui tentarono invano di contrapporsi gli altri detentori del primato narrativo, i francesi. Una località per tutte: Waterloo. Il suo protagonista è Napoleone, del quale il suo sempiterno adoratore, Stendhal, scrive: «Niente era immutabile per quello spirito, davanti al quale il limite del possibile si allontanava sempre, come l’orizzonte davanti al viaggiatore…». Lev Tolstoj è di tutt’altro parere: «La volontà dell’eroe storico non solo non dirige l’attività delle masse, ma ne è essa stessa costantemente dominata». Lo stralcio proviene da Guerra e pace, la quintessenza della prosa bellica, dove il sangue, la violenza hanno un impatto in chi legge che neanche la più atroce corrispondenza televisiva può uguagliare. Anzi, in proposito Tolstoj lancia un monito che suona profetico: «L’azione di un comandante supremo non somiglia minimamente a ciò che noi possiamo immaginarci standocene comodamente seduti nel nostro studio ad analizzare sulla carta geografica una data campagna di guerra con un dato numero di truppe da una parte e dall’altra, in una data località, e cominciando le nostre riflessioni da un dato momento.» Ma fermarsi a Tolstoj significa dimenticare altri che riportarono in caratteri cirillici la tragedia della guerra.
Prima di lui, Aleksandr Sergeevič Puškin rievoca in La figlia del capitano la rivolta di Emel’jan Pugačëv, che vorrebbe passare agli occhi del contado come lo zar Pietro III. Ecco come lo fa apparire nel romanzo: «Egli si fermò, venne attorniato e, evidentemente per ordine suo, quattro uomini si staccarono dal gruppo e galoppando a tutta carriera, giunsero fin sotto la fortezza. Riconoscemmo in loro i nostri traditori. Uno di essi teneva sopra il berretto un foglio di carta; un altro teneva infilzata sulla lancia la testa di Julaj, che, con uno scrollone, gettò verso di noi». Anche qui, un realismo che surclassa il reportage contemporaneo. Non può insorgere nessun dibattito sulla possibilità delle fake news, della messinscena, della pretesa di un’inchiesta chiarificatrice. È orrore autentico, senza filtri digitali. Ne è testimone chi racconta in prima persona.
Michail Jurevič Lermontov prese parte con Tolstoj alla guerra del Caucaso, combattuta in tre tempi, dal 1816 al 1856. Le località coinvolte precorrono la geopolitica del presente con nomi che chiunque apprende oggi dalla cronaca: Caucaso, Cecenia, Daghestan, Crimea. Lermontov ne ricava suggestioni che confluiranno nel suo capolavoro. Un eroe del nostro tempo, magistrale incrocio di autobiografia, o memoir, come si direbbe nel gergo editoriale del presente, analisi interiore e aneddotica. Delle esperienze guerriere di Lermontov si avverte l’eco: «Il male genera il male; la prima sofferenza risveglia l’idea di quanto sia piacevole tormentare gli altri; l’idea del male non può penetrare nella mente dell’uomo senza che egli non senta il desiderio di applicarla.» Considerazioni non dissimili da quelle che ripete quotidianamente colui che più di molti altri oggi si batte per la cessazione delle ostilità, Papa Francesco.
Sennonché, Lermontov non era certo un ecumenico: «Le passioni non sono altro che idee nella loro prima forma di sviluppo: appartengono alla giovinezza del cuore…». Ed è in questa giovinezza del cuore che probabilmente alberga il vigore della resistenza ucraina. Dopo la formidabile stagione letteraria del XIX secolo, le guerre dei russi ripiegano dai panorami europei alle controversie interne. Giunge l’epoca della rivoluzione di ottobre, anch’essa una guerra. Mikhail Sholokhov ne dà una propria versione in Il placido Don. L’oscillazione pendolare del cosacco Grigorij fra i russi rossi e i russi bianchi è la proiezione su vasta scala del suo dualismo sentimentale calamitato da Aksinja e Natalja. Analogo a quello di Jurij Zivago, che ama Lara ma ha sposato Tonja, e nel contempo si dibatte fra retaggi familiari e lealtà rivoluzionaria. Da Tolstoj a Pasternak, le guerre della grande letteratura russa costituiscono un sconfinato patrimonio artistico, che non deve finire tra le macerie delle città ucraine martoriate da Putin.