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«Scontenti» alla riscossa nella società dei consumi: l'ultimo saggio di Marcello Veneziani

«Scontenti» alla riscossa nella società dei consumi: l'ultimo saggio di Marcello Veneziani

 
Michele De Feudis

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Michele De Feudis

Regionali in Puglia, nel centrodestra spunta l'ipotesi di Veneziani

«Il disagio esistenziale divenga energia per il riscatto del Sud»

Lunedì 19 Dicembre 2022, 13:34

21:56

Non sono né la rabbia né l'odio e nemmeno il narcisismo a caratterizzare l'attualità in divenire: sorprende invece la rilevanza della scontentezza, tema a cui Marcello Veneziani ha dedicato il suo ultimo lavoro per Marsilio (Scontenti, pp. 176, euro 18).

Veneziani, il suo nuovo saggio per Marsilio è dedicato alla fenomenologia di chi vive con infelicità la propria esistenza. Perché è un sentimento centrale nel nostro tempo?

«Viviamo l’età della scontentezza, è il male oscuro della nostra epoca e il sentimento prevalente nella nostra società. Pullulano libri sulla felicità e sull’infelicità, il Censis dice che siamo malinconici, ma non c’è un saggio, uno studio e un’analisi sugli scontenti. Perché è così importante nella nostra epoca? Perché è stridente il contrasto tra aspettative e realtà, il buco nero dei desideri infiniti e inesauribili genera lo scontento permanente. E poi la condizione umana, da quando ha perso speranze di salvezza e fede in Dio, naviga nella scontentezza».

La speculazione filosofica sulla parte di mondo a cui non piace il proprio tempo da cosa nasce?

«C’è una scontentezza interiore, una privata e una pubblica. La prima attiene a quella insoddisfazione spirituale che tocca appunto i temi della nostra vita e della nostra mortalità, del dolore e della vecchiaia rispetto a cui si può far poco sul piano pratico. La seconda, invece, riguarda i mezzi e le possibilità di cui disponiamo e la nostra considerazione nei rapporti interpersonali. La terza forma di scontento è invece di tipo civile e politico, coincide col malcontento che da anni è il motore principale dei cambiamenti politici, della vittoria di movimenti populisti, radicali, di opposizione, o conservatori. A scatenare questo malcontento sono gli effetti della pandemia e della guerra in Ucraina, della crisi energetica, economica e ambientale. Le paure, le minacce, i timori sul futuro… E sotto covano le frustrazioni della società dei consumi, che ci vuole eternamente insoddisfatti perché così alimentiamo il ciclo dei consumi».

Rassegnazione e indignazione hanno avuto negli ultimi anni una declinazione politica (anche) con il populismo. Gli scontenti che cittadinanza hanno nei giochi politici italiani?

«Il partito degli scontenti è andato al governo prima con il M5S e con la Lega, ora con la Meloni e la sua coalizione di destra-centro. È andata al governo, però, non al potere, che è costituito da assetti blindati e sovranazionali che non dipendono dal popolo sovrano. Perché il potere è una matrioska, e la politica è la bambolina più piccola all’interno di bambole più grandi: gli assetti istituzionali, la direttive europee, la Nato e l’apparato militare, l’alleanza atlantica, le potenze economiche e finanziarie sovranazionali… Sarà una difficile scommessa riuscire a trovare un punto di mediazione tra le richieste degli scontenti e i limiti imposti dagli assetti di potere sovrastanti. E tra gli scontenti covano non pochi incontentabili…».

Gli «scontenti» sono inevitabilmente ribelli o destinati alla semplice «sconfidenza»?

«Il potere ha avuto una strana evoluzione nel rapporto con i cittadini. Il potere classico amministrava la rassegnazione o il minimo di contentezza tramite feste, farina e forca, ovvero distrazioni, bisogni minimi e minaccia di punizione per i ribelli. Il nuovo potere invece ci vuole scontenti ma sul piano privato, perché gli insoddisfatti sono sempre più dipendenti dai consumi, dai cambiamenti di status e di stato, perfino dalla chirurgia estetica e dai desideri mutanti. Spostando lo scontento nel privato, si ottengono due vantaggi: il potere politico si libera dal malcontento pubblico e il potere economico e commerciale, finanziario e farmaceutico, alimenta il ciclo dei consumi. Però poi eventi come quelli prima citati riportano il malcontento sul piano pubblico. E così nasce il Partito popolare degli scontenti».

L’interprete letterario per eccellenza di questa condizione è Michel Houellebecq?

«Il francese è uno dei più efficaci interpreti nel nostro tempo, in chiave narrativa, di questo stato d’animo diffuso. Ma non è certo il solo. C’è una linea molto lunga e ampia, che viene dal passato, di intellettuali scontenti che hanno trasmesso la loro scontentezza di vivere anche se spesso non sono andati oltre la rappresentazione negativa di questo stato d’animo».

Che ruolo gioca in questa dinamica esistenziale l’etica consumista censurata da Latouche o Pasolini?

«Il nuovo capitalismo è la principale industria dello scontento, produce frustrati, insoddisfatti in competizione permanente, ingigantisce la macchina dei desideri e dei bisogni artificiali, regge sull’insoddisfazione continua, come hanno osservato ieri i Pasolini e più di recente i Bauman e i Latouche. Accontentarsi è una virtù ma se si fa indolenza diventa un vizio. Essere scontenti, invece, è un vizio ma se si fa intraprendenza diventa una virtù. Si tratta di ritorcere quell’insoddisfazione veicolata dal nuovo capitalismo contro i suoi stessi meccanismi e rivolgerla per generare modelli di vita comunitari, ad altezza d’uomo. Si tratta di ripristinare la naturale priorità della vita; il profitto è mezzo e non fine, l’umanità è fine e non mezzo, o target».

C’è una cura per questa inquietudine? La via di Pessoa?

«Pessoa insegna a convivere con il male di vivere, non indica vie d’uscita dallo scontento. La terapia per lo scontento è interna al suo stesso malessere. È trasformare lo scontento in un’energia per migliorare le cose, realisticamente; non immaginando vie impossibili o soluzioni utopiche ma per rendere lo scontento motore di ricerca, di conoscenza, di cambiamento e di svolta, anche politica e civile».

Nel saggio evoca due pensatori controcorrente come Jean Cau e Alexander Dugin…

«Cito entrambi nel mio libro, insieme a Zizek e ad altri intellettuali. Cau immaginò una risposta eroica e solitaria alla condizione umana, un cavaliere della disperazione che avanza intrepido nonostante la decadenza degli dei. Dugin ritiene che lo spiritualismo eroico e la tradizione russa possano costituire baluardi e bussole per poter risalire dal cinico nichilismo della nostra epoca. Ma sono risposte che probabilmente non raggiungono il cuore e la mente degli scontenti occidentali di oggi».

Lo scontento al Sud, maggiore che al Nord, per le aspettative deluse, può diventare carburante di una riscossa identitaria meridiana?

«Il Sud è da tempo la terra dello scontento, impoverito dalla denatalità, dalla fuga all’estero o al Nord dei suoi giovani e percorso da una specie di fatalismo dell’abbandono. Bisognerebbe rovesciare quel fatalismo e ripartire proprio dallo scontento: ovvero non accontentarsi di quel che passa il convento ma tentare di risvegliare una reazione, un’energia per ridare vita a un Sud che troppi indicatori danno ormai sulla china di un’irreversibile decadenza. Il problema non è cancellare i motivi di scontento ma cambiarne il verso, capovolgerli in una spinta propulsiva, in una voglia di futuro, ancora troppo scarsa».

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