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Oscar Iarussi
04 Dicembre 2020
Il protagonista Fabio De Luigi nel film si chiama Carlo Rovelli come il famoso fisico autore di L’ordine del tempo e di altri libri di successo editi da Adelphi. Oddio, non gli somiglia granché nel carattere e nelle esperienze, eppure per certi versi adotta a sua volta un «metodo sperimentale» per tentare di risolvere la crisi familiare con la moglie Giulia (Valentina Lodovini) e con i tre figli. Dopo l’ottima accoglienza al botteghino di 10 giorni senza mamma (2019), il regista Alessandro Genovesi riporta di scena la famiglia Rovelli in questo 10 giorni con Babbo Natale che, a sale chiuse per la pandemia, sarà disponibile solo in streaming.
Carlo è disoccupato da un paio di anni e sta cercando occupazione nel settore alberghiero, intanto gioco forza fa «il mammo», maldestramente alle prese con i tormenti esistenziali (amorosi e sociali) della figlia più grande Camilla, emula di Greta Thunberg, una protestataria «bio» fin dalla colazione. Qualche... rovello glielo crea anche la deriva razzistica e neonazista del dodicenne Tito, un ragazzino affetto da sonnambulismo e uso a tirare certi schiaffoni da infarto al papà dormiente. Meno complicato è il rapporto con la piccola Bianca, di cui Carlo si sciroppa la recita natalizia nella platea dei genitori con smartphone alla mano (verissimo: nessuno guarda i figlioli, tutti son troppo presi dal registrare). Là il mammo non perde occasione per sfotticchiare una signora seduta di fianco: «La mia bimba è una pecorella del presepe, un personaggio esistente, mentre suo figlio ha un ruolo di fantasia. Ha mai sentito dell’esistenza effettiva dei Re Magi?».
Giulia invece da un po’ è assente nel teatro/teatrino familiare a causa del lavoro (il precedente film si chiudeva con la sua decisione di riprendere a fare l’avvocato). Per di più, poco prima delle Feste, una notte Giulia comunica al marito di aver ricevuto un’offerta professionale in Svezia che contempla la necessità di trasferirvisi per un periodo. Il colloquio è fissato a Stoccolma il 24 dicembre e non ci sono voli disponibili per il ritorno fino al 26! Apriti cielo, Carlo si infuria e va via di casa. Ma il mattino seguente si ripresenta con il vecchio e sgangherato camper delle vacanze giovanili della coppia, proponendo di andare tutti a Stoccolma pur di trascorrere insieme il Natale.
Detto, fatto. Il film diventa un road movie formato famiglia scandito dal procedere del viaggio sulla cartina geografica dell’Europa e con una serie di tappe in Alto Adige, in Germania e più a Nord. Nel camper non funziona lo scarico del bagno né l’impianto di riscaldamento (la temperatura è tropicale o si gela), e l’unica musicassetta che ancora va nel mangianastri è una compilation di Al Bano e Romina (Felicità…). La situazione si complica quando in una stazione di servizio Tito insulta un camionista albanese che prende a inseguirli col suo bestione a motore, neanche fossimo in Duel di Spielberg, costringendo Carlo a una spericolata manovra da fuori strada. Poco oltre, il camper investe qualcosa, qualcuno… È un Babbo Natale (Diego Abatantuono) disorientato, smarrito, confuso forse a causa dell’urto, che i Nostri accolgono a bordo per un passaggio che lo avvicini il più possibile alla lappone Rovaniemi dove vive, sebbene lui dica che quel villaggio è roba da turisti, mentre continua a decantare la bontà del baccalà in una trattoria di Lisbona (surreale, lo so).
Abbiamo svelato fin troppo. Il film ambisce a declinare l’incredibile nella vita quotidiana e a vedere l’effetto che fa. Come suol dirsi, de te fabula narratur, la favola parla allo spettatore dei suoi limiti e delle sue speranze. Genovesi, già autore nel 2012 di Il peggior Natale della mia vita, certo non guarda al Canto di Natale di Charles Dickens con gli spiriti gotici e la morale anti-avarizia, ma il suo nuovo film è un gradevole e divertente passatempo per le serate da Dpcm in zona «state a casa». De Luigi e Lodovini sono efficaci e rodati nel gioco di sponda, Abatantuono gigioneggia (ovvero babbonataleggia) ma non troppo nonostante «la sciatica da slitta», la pressione alta e il problema di onorare le richieste delle mille letterine ricevute, e persino Tito alla fine si converte al multiculturalismo. Produce Colorado Film in collaborazione con Medusa.
(foto Loris T. Zambelli)
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