BARI -«Per me il Bari è il Real Madrid». Parole datate giugno 2023. Sono giorni terribili, la sconfitta nella finale playoff contro il Cagliari è una ferita dolorosissima e aperta più che mai. A parlare così è Michele Mignani, l’uomo andato a centoventi secondi da un clamoroso e storico doppio salto dalla serie C alla «casa» del calcio che conta. E sapete perché? Qualcuno, in quei giorni, si era divertito a mettere in giro voci strane. Della serie, l’allenatore «non se la sente di ripartire dopo una delusione così grande». Non sembri un paradosso, ma è qui che vengono poste le fondamenta per una stagione che, poi, si sarebbe rivelata un vero e proprio disastro, un fallimento senza precedenti. Società e direttore sportivo (Polito) vorrebbero congedare Mignani ma non ne hanno il coraggio. Sperano, probabilmente, che sia lui a mollare. Invece no. Mignani risponde così a chi, sorpreso da quel tam tam, va a caccia di risposte credibili. Su giornali e su autorevoli testate televisive si parla di un avviato contatto con il Frosinone. Tutto rigorosamente falso. «Giochini» vecchi quanto il calcio. Fin troppo facilmente leggibili.
Mignani non avrebbe mai preso in considerazione altre proposte. In testa aveva solo il Bari. Agli amici confidava «ma come potrei mai decidere di lasciare una piazza del genere?». Arriva la conferma con tanto di rinnovo del contratto, allungato di un anno. Un atto freddo e formale, prim’ancora che doveroso risultati alla mano. Assolutamente non una dichiarazione di fiducia. Di fiducia non ce n’è più. «Non è più lo stesso», si sussurra negli ambienti del tifo inseguendo gli immancabili spifferi. Qualcuno ci casca, per fortuna non tutti. C’è una regia, un disegno che poi si rivelerà l’inizio della fine. E sì, perché poi succede che dopo nove giornate Mignani venga esonerato! Dieci punti all’attivo: sette pareggi, una vittoria (a Cremona) e una sconfitta (a Parma, immeritatamente). Con una squadra costruita in extremis e calciatori che giocano le prime partite in condizioni imbarazzanti. Tutti sapevano che sarebbe stata un’annata difficilissima dopo quell’epilogo ai playoff. L’allenatore andava aiutato, affiancato, rassicurato, blindato. No, non va così. Bersaglio facile. E va in scena uno dei più grandi «tradimenti» della storia del calcio barese. Come quando si colpisce alle spalle. Tralasciando una serie di dichiarazioni di pessimo gusto che, poi, tra l’altro il tempo e il campo hanno «distrutto». Anche le virgole, se mai fosse possibile ipotizzare una punteggiatura in quei deliri di onnipotenza.
Arriva Marino («maestro di calcio»), poi Iachini («l’uomo giusto, la sicurezza, un vincente»). Poi finisce come tutti i baresi ricordano. Con i giorni dell’autogestione, una follia. E un lieto fine (la salvezza) a cui seguono una serie di acrobazie dialettiche da mettere i brividi, ancora oggi. Il silenzio sarebbe stata una mossa intelligente, quasi doverosa. Ma l’intelligenza non la trovi ovunque, anzi.
Mignani, già. Una premessa, uno come lui non c’entra nulla nel calcio, ancora più quello di oggi. Un mondo in cui, spesso, ci si innamora degli strillatori di professione. Il mondo degli arroganti, pieno zeppo di «ciucci» e presuntuosi. Piacciono i capi popolo, i sobillatori. Lo stile è sovrastato dagli isterismi. Chi non urla e non piange... è un «coglione». Ma no, ragazzi, non scherziamo. Tutta la vita uno come lui. Uno, dieci, cento Mignani. Non vanno più di moda i galantuomini, vero. Ma questo lasciamolo pensare a chi non ha ancora capito che il calcio sta finendo a rotoli anche e soprattutto per le miserie umane che lo compongono. Qui vive ancora il ricordo di un bravo allenatore, di un ottimo professionista e, soprattutto, di una persona per bene. Per bene, ma davvero. Non una gelida etichetta come spesso accade quando c’è da «accontentare» qualcuno in alto. Mignani va applaudito perché ha dato tanto al Bari, perché ha rispettato Bari e la sua gente e perché con la sua eleganza (mai una parola fuori posto, una polemica, un atteggiamento sopra le righe) e il suo stile ha onorato una maglia storica come quella biancorossa.
Quell’esonero deve essere stata una mazzata per lui. Quasi una «vigliaccata», calcisticamente parlando evidentemente. Eppure sapete cosa ha risposto a un amico, il giorno dopo? «Polito non credeva più in me», punto. Capito chi è Mignani? Chiunque avrebbe «vomitato» di tutto. E di cose da dire ne aveva sicuramente anche lui dopo che qualcuno, in conferenza stampa, si era consentito il lusso di farlo passare per un incapace. Lui, no. Ha mantenuto il suo aplomb anche con la lama conficcata in pieno petto. Un uomo che conosce la parola rispetto e che, soprattutto, non dimentica mai la sacralità dei ruoli. Lui non ha l’ambizione di «gestire» tutto ciò che è fuori dal rettangolo verde. Non «allena» tifosi, non strizza l’occhio ai giornalisti, non insegue consensi battendo il tasto della facile retorica, non si nutre di populismo. Il vero normal one, l’eleganza e il garbo per lui sono molto più di uno stile di vita. Diciamo uno stato d’animo.
Mignani torna a Bari da avversario. Alla guida di un Cesena sbarazzino e frizzante. Un avversario, certo. Non ci sarà un barese a cui mancherà l’ambizione di batterlo. Il bello del calcio, assolutamente. Ci sarebbe da applaudirlo, sarebbe bellissimo. Come si fa con chi il rispetto se l’è meritato tutto. Un vecchio amico da salutare con quel pizzico di magia negli occhi. Tanti ricordi felici, un percorso a tratti entusiasmante. Anche quella ferita, sì, contribuisce a unire perché, in fondo, nella sofferenza ci si sente ancor più sulla stessa barca.
Uno, dieci, cento Mignani. Ad altissima voce. Per tanti baresi è stato un privilegio camminare insieme a lui inseguendo il Paradiso. E questo sarà sempre il luogo del cuore. Quella città in cui, può passare una settimana o un anno, respiri sempre gli stessi profumi. Si chiamano emozioni. E sono la cosa più bella della vita. Bentornato, mister. A casa. La «tua».