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Loseto, cuore biancorosso, col Bari una storia d’amore senza confini

 
Davide Lattanzi

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Davide Lattanzi

Loseto, cuore biancorosso, col Bari una storia d’amore senza confini

L' uomo dei record , con undici stagioni coi colori dei galletti, oggi compie 60 anni

Giovedì 16 Febbraio 2023, 15:16

BARI - «Dang nu tuzz, Giuan dang nu tuzz». Tradotto dal dialetto barese, significa «Giovanni, dagli una testata»: risuonava forte questo coro, dal Della Vittoria al San Nicola. Ed era dedicato a Giovanni Loseto, forse la bandiera del Bari più amata di ogni epoca. Undici stagioni in biancorosso (dal 1982 al ‘93), 318 presenze e 13 gol realizzati: è secondo nella classifica dei fedelissimi «all time» del Galletto, primo per gettoni accumulati tra i baresi che hanno militato nella squadra della città. Il suo palmares conta il doppio salto dalla C alla A dal 1984 all’86, un’altra promozione in A nel 1989, quattro tornei nel massimo torneo italiano che all’epoca era davvero il campionato più bello del mondo.

Terminata la carriera agonistica vestendo le maglie di Pescara, Barletta e Cerignola, dal 2005 è iniziata la sua seconda vita biancorossa: 13 anni da allenatore del settore giovanile e collaboratore tecnico della prima squadra, fino al crack finanziario del 2018. La sua maglia numero due è l’unica ritirata nei 115 anni di storia del Bari, la sua generazione ha portato ben cinque esponenti (i fratelli maggiori Pasquale e Onofrio, il nipote Valeriano, il figlio Ivan). Fin qui i numeri di una storia unica. Oggi Giovanni compie 60 anni. E il racconto del suo amore per il Bari è un regalo per tutti i veri tifosi dei Galletti.

Giovanni Loseto, qual è il primo pensiero nel giorno di un compleanno così speciale?

«È un bel traguardo, ma il tempo è corso alla velocità della luce. Il Bari è in ogni caso la vita della mia famiglia che, unendo i parenti Chiricallo da parte di mia mamma, compare in circa metà della storia biancorossa. La data decisiva per me fu il 29 maggio 1983, quando contro il Monza sbagliai il rigore che ci condannò ad un’incredibile retrocessione in serie B, nella stagione del mio esordio, ad appena 19 anni. Lì giurai a me stesso che dovevo sdebitarmi con la squadra della mia città. E ho sempre detto che se non mi avessero cacciato dal Bari, sarei morto in questo club. Purtroppo, le separazioni sono avvenute lo stesso, ma non le ho mai volute».

Ci racconta i frangenti del distacco?

«La prima volta è accaduta da calciatore, nel 1993. Il direttore Regalia ed il tecnico Materazzi decisero di ripartire dai giovani. Compresi la scelta, ma mai avrei creato problemi anche senza un ruolo da protagonista. Ma ciò che mi fece più male fu finire fuori rosa per due mesi. Poi fui acquistato dal Pescara: percorrendo la strada per l’Abruzzo, io e mia moglie piangevamo. Pensavo davvero che avrei indossato una sola maglia nella mia carriera. Il resto è storia recente. La nuova proprietà ha compiuto scelte diverse: sono imprenditori abili, il Bari è in mani solide, la presenza di Giovanni Loseto non è determinante. Ma non posso mentire: non riesco ad andare allo stadio. Il giorno della partita sono a casa e mi chiedo che cosa abbia fatto per non essere al San Nicola… Poi, però, subentra la gratificazione che nessuno potrà togliermi».

Quale?

«Quella che ti dà la gente. Quando cammino, mi fermano tutti, come se il tempo non fosse mai trascorso. Un calciatore può essere amato o contestato, ma se il legame resta anche quando non sei più in campo, allora significa che davvero hai lasciato qualcosa di unico. Per me il sorriso o il parere di un tifoso è sempre contato più di un voto in pagella. Perché mi sentivo uno di loro. Mister Bruno Bolchi parlando di me, Giorgio De Trizio, Terracenere, Lopez diceva: “Voi non siete calciatori, siete Ultras che giocano a pallone”. Aveva ragione».

Tra fine anni ‘80 e gli anni ‘90 era tra i migliori difensori italiani: c’è stato un frangente in cui ha pensato di lasciare Bari per una big?

«Mi ha voluto Radice all’Inter, poi Trapattoni sempre in nerazzurro, ma soprattutto la Roma, nel 1990, quando ero reduce da un grande campionato in A, con quattro gol realizzati. Il presidente Vincenzo Matarrese chiedeva tanto per cedermi, la trattativa si arenò prima che potessi valutare l’eventuale proposta. Eppure, quando ero convocato per i rinnovi, dicevo “Presidente, faccia lei il contratto”. E quando mi ha chiamato tra i tecnici del settore giovanile, non ho esitato, malgrado mi offrissero il doppio in C e D».

Proviamo a riavvolgere il nastro: l’attaccante più forte che ha marcato.

«Come centravanti, Marco Van Basten del Milan. Ma mi è capitato anche di occuparmi di Diego Maradona, il più grande di tutti. All’epoca, comunque, domeniche tranquille non ne trascorrevi: lasciavi Careca e arrivava Vialli o Roberto Baggio o Rumenigge o Klinsmann e potrei andare avanti all’infinito».

Il compagno più forte con cui ha giocato.

«Anche qui c’è l’imbarazzo della scelta. De Trizio che mi ha insegnato tanto, Totò Lopez che è stato una guida, Terracenere, Perrone, stelle internazionali come Platt, Boban e Jarni, il “mitico” Joao Paulo. Però un po’ più in alto colloco Pietro Maiellaro: era speciale, geniale, irresistibile. E non è vero che fosse una testa matta: lavorava tanto, anche sul lato fisico era fortissimo. Forse gli è mancato un pizzico di continuità, ma oggi sarebbe nel Real Madrid. E non scherzo».

Il tecnico con cui si è trovato meglio.

«Enrico Catuzzi mi ha insegnato il calcio: un maestro, un precursore dei tempi. Bolchi e Salvemini erano dei papà, magari insistevano meno sul piano tecnico-tattico, ma erano straordinari gestori dello spogliatoio, dote che non va sottovalutata: se perdi un calciatore sul piano mentale, hai finito».

E tra gli allenatori con cui ha collaborato da tecnico?

«Ho avuto la fortuna di lavorare con allenatori estremamente seri. Per potenziale, cito Fabio Grosso: non piaceva a tutti, ma secondo me aveva qualità per sfondare. Ora a Frosinone sta compiendo un miracolo».

Le piace il calcio di oggi?

«Sarò nostalgico, ma preferivo il mio. Oggi i difensori marcano poco, si preoccupano di impostare, si gioca molto con passaggi laterali. Non vedi i dribbling di un tempo, i gol in rovesciata sono una rarità. La fantasia ha lasciato il posto a corsa, fisico e tattica esasperata».

E…il Bari?

«Dico solo una cosa: il suo posto è la A. Lo merita una piazza unica. Lo merita la gente per cui ho sempre lottato».

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