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Pregiudicato ferito al San Paolo: «Reazione ai soprusi del clan»

 
Isabella Maselli

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Isabella Maselli

Pregiudicato ferito al San Paolo: «Reazione ai soprusi del clan»

Le motivazioni dei giudici di appello: «Violenza non giustificabile ma non è mafia»

Domenica 11 Maggio 2025, 09:25

BARI - Il ferimento del pregiudicato 35enne Domenico Franco, commesso il 22 agosto 2022 nel quartiere San Paolo, sarebbe stato «la conseguenza di una serie di soprusi ai danni» della famiglia Vavalle. Questo scrivono i giudici della Corte di Appello di Bari nelle motivazioni della sentenza con cui, escludendo l’aggravante mafiosa, hanno ridotto da 7 anni a 3 anni e 4 mesi di reclusione la condanna inflitta al 21enne Francesco Vavalle: assolto dal reato di porto e detenzione di armi «per non aver commesso il fatto» e condannato per il concorso morale nelle lesioni (non mafiose). Esecutore materiale reo confesso dell’aggressione il fratello di Francesco, Giuseppe Vavalle, 27 anni, giudicato con rito abbreviato.

La sera del 22 agosto 2022, il 35enne fu colpito in faccia con un tirapugni e ferito ad una gamba da un proiettile. Scenario dell’agguato il seminterrato del bar «Gran Caffè» in via delle Regione, gestito dalla famiglia Vavalle. Per il pestaggio erano finiti alla sbarra in quattro: oltre ai due fratelli Vavalle, c’erano la mamma e la sorella, accusate di aver ripulito la scena del delitto dal sangue della vittima ed entrambe poi assolte, tutti assistiti dall’avvocato Nicola Quaranta.

Il ferimento - secondo la Dda di Bari e secondo i giudici della seconda sezione collegiale del Tribunale penale di primo grado - costituì il culmine di una faida ventennale tra la famiglia Vavalle del quartiere San Paolo e il clan mafioso Strisciuglio, di cui Franco è ritenuto sodale. In appello questa ricostruzione è stata smentita. «Non appare che il movente - si legge nella sentenza - sia da individuarsi nella volontà di affermazione della famiglia Vavalle in quanto contrapposta al clan Strisciuglio, laddove, al contrario, è emerso che detta famiglia, lungi dal voler prevaricare ed affermarsi, fosse stata più volte oggetto di attentati e di intimidazioni proprio da appartenenti al clan. Certo è - proseguono i giudici - che nelle precedenti occasioni di contrasto i Vavalle avevano dimostrato di non volersi piegare al volere prepotente e predominante della criminalità dominante nel quartiere, tanto da essere stati anche costretti a chiudere temporaneamente le loro attività commerciali e ad allontanarsi dal rione proprio per sottrarsi a possibili ritorsioni».

I Vavalle non si sarebbero lasciati intimidire e «esasperati dalle continue vessazioni subite, avevano osato opporsi, con una violenza tanto censurabile quanto non giustificabile». Nella sentenza di primo grado, che aveva riconosciuto l’aggravante mafiosa, i giudici spiegavano che «se i Vavalle fossero stati realmente vittime di inique persecuzioni ed estorsioni, ben avrebbero potuto reagire denunciandole alle autorità competenti e non invece eseguendo la gambizzazione ai danni di uno dei soggetti ritenuti di spicco all’interno del clan ostile». La Corte ritiene, però, che «se tale atteggiamento di educazione civica è esigibile dal comune uomo della strada», non lo è «nei confronti di chi vive e si dibatte in ambienti degradati e contigui alla criminalità, dove la normalità consiste nel risolvere i problemi da se stessi, per la sfiducia per il pur encomiabile lavoro svolto dalle forze dell’ordine. Tale atteggiamento - conclude la sentenza - non è di per sé indice di metodo mafioso».

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