La foto dell’infermiera Elena Pagliarini esausta nel pronto soccorso dell’ospedale di Cremona, scattata dal medico altamurano Francesca Mangiatordi nei primi, terribili, giorni del Covid, ha fatto il giro del mondo. Quella immagine in bianco e nero è diventata un simbolo degli eroi in camice bianco, al punto che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ieri ha voluto includere anche la Pagliarini tra i destinatari della prestigiosa onorificenza di «Cavaliere al merito» (ne parliamo in altra pagina) per l’impegno esemplare nelle settimane della pandemia. Tra l’altro, l’infermiera lombarda ha contratto essa stessa il virus e ne è guarita.
Francesca Mangiatordi, al telefono, commenta la notizia: «Grazie, Elena. Con la semplicità e l'umiltà che ti contraddistinguono hai dato voce a tanti tuoi colleghi e agli operatori sanitari che in questi mesi, tra gap burocratici e difficoltà effettive dovute a un “morbo” nuovo, hanno affrontato a testa alta questo enorme e complesso periodo». Quarantasei anni, sposata, madre di due figli di 13 e 11 anni, Mangiatordi lavora in Lombardia da due anni. Sta trascorrendo qualche giorno di meritato riposo in riva al lago d’Iseo.
Il suo «viaggio all’inferno e ritorno» è durato cento giorni. Lavorare di fianco al coronavirus significa vedere pazienti morire, colleghi ammalarsi come la stessa Elena, camminare per ore nei nei corridoi, tra i letti di terapia intensiva che accoglievano persone intubate.
Dottoressa, tre mesi tremendi?
«Tutto è iniziato il 20 febbraio. La difficoltà era anche quella di capire come affrontare le conseguenze dell’infezione per via dell’interessamento di altri organi. La situazione è poi decisamente migliorata. Il pronto soccorso è la via di accesso all’ospedale e ora il numero di pazienti Covid è decisamente ridotto. In una giornata li contiamo sulle dita di una mano. Soprattutto ora non hanno bisogno di essere intubati o di una ventilazione forzata».
Avevate i dispositivi di protezione?
«Quelli li abbiamo sempre avuti, per fortuna. Una mia collega che lavorava in Spagna mi ha raccontato che loro usavano la stessa mascherina per 15 giorni consecutivi e per fortuna da noi non è mai accaduto. Il problema è che avere 200 accessi al giorno vuol dire che l’ospedale è saturo. In un giorno solo abbiamo avuto 218 accessi e in media ne entravano 180. Non avevamo posti letto».
Com’è l’inferno quanto ti arrivano di colpo 218 pazienti?
«Devi sistemarli nel miglior modo possibile e soprattutto dare un’assistenza dignitosa. Abbiamo tirato fuori lettini e brandine per gli ammalati con 40 di febbre. Molti collassavano, non ce la facevano a stare in piedi. Ogni ora l’infermiera mi chiamava dicendomi “dottoressa, questo paziente è svenuto”. I corridoi del pronto soccorso erano stracolmi di umanità sofferente. Passando, piangevo».
Ne ha visti morire tanti?
«In pronto soccorso per fortuna pochi. Comunque in tanti sono andati in Rianimazione. Per molti di loro l’evoluzione è stata verso il peggio. Abbiamo cercato di coprire i turni dei colleghi che si ammalavano. C’erano giorni in cui guardavamo il tabellario per vedere chi era in servizio».
Ha salvato molte vite?
«Non ho mai chiamato i pazienti per cognome ma per nome, per tranquillizzarli. Molti mi domandavano che fine avrebbero fatto. Altri vedevano intubare i pazienti di fianco e la paura cresceva. Cercavamo di rassicurarli ma i dati clinici spesso erano drammatici».
Ci racconti della famosa foto, per piacere.
«Elena lavorava con me, la notte tra il 7 e l’8 marzo. Quella notte ci fu la fuga dei meridionali dal nord. Lei era davvero provata perché aveva fatto un turno la notte prima. Ha lavorato con le lacrime agli occhi continuamente. Cercavamo di darci forza a vicenda. Ci sentivamo impotenti. Uno dei primi colleghi era stato intubato a inizio marzo. Ora è guarito. Elena crollò esausta sulla scrivania».
Come ha gestito i rapporti con la famiglia?
«Mio padre ha la demenza senile e mia madre si prende cura di lui. Stanno ad Altamura. Spero di riabbracciarli a fine mese. Li ho sempre rassicurati, cercando di non rivelare dettagli su quelle settimane “in trincea” perché non volevo che si preoccupassero»