di GIUSEPPE DE TOMASO
Meno male. Meno male che ieri si è realizzato il mini-compromesso sulle presidenze delle Camere, altrimenti la nuova legislatura avrebbe iniziato a ballare sùbito, agevolando il suo scioglimento-lampo. Sia chiaro. Prima o poi i presidenti di Senato e Camera si sarebbero trovati. Ma un conto è partire in una condizione di guerriglia permanente, un conto è partire in uno situazione di tregua.
Il primo atto del nuovo Parlamento ha sancito la principale verità emersa dalle urne: i Cinque Stelle hanno vinto, però non hanno tutti i numeri per governare; ma pure gli altri non potranno governare se il M5S farà opposizione.
Oggi è Luigi Di Maio l’uomo forte del Paese. Voleva la presidenza di Montecitorio per il M5S e l’ha ottenuta (Roberto Fico: uomo del Sud, dove i grillini hanno stravinto). Non voleva Paolo Romani al Senato ed è stato accontentato.
Matteo Salvini ha giocato una partita complessa: mantenere l’asse con Di Maio senza indispettire Silvio Berlusconi. Ci è riuscito a metà. Alla fine il capo leghista ha sbarrato il passo al candidato ufficiale di Forza Italia per il Senato, ma ha dovuto ingoiare il no berlusconiano al suo blitz per portare Anna Maria Bernini al vertice di Palazzo Madama. Una forzatura che l’altro ieri aveva fatto esplodere il centrodestra.
Pace fatta allora tra Berlusconi e Salvini dopo l’investitura di Maria Elisabetta Alberti Casellati al Senato e l’abbandono improvviso di Romani da parte del suo Principale? Andiamoci piano.
Berlusconi non lega con Salvini come legava (alla grande) con Umberto Bossi. Ora che i rapporti di forza tra i due partiti di riferimento si sono ribaltati, il legame tra Silvi e Matteo è vieppiù traballante.
Salvini sospetta che sotto sotto Berlusconi coltivi il disegno di un Nazareno-Bis, vale a dire un flirt con il Pd post-renziano. E per frenare l’ex Cavaliere, il leader leghista gli ricorda ogni due ore che bisogna impedire sul nascere il fidanzamento tra dem e pentastellati, di conseguenza conviene lusingare Di Maio.
Berlusconi sospetta che Salvini abbia già dato vita alle grandi manovre per isolare Forza Italia e lanciare un’opa sul suo elettorato. Salvini, però, gode di una rendita di posizione in più rispetto a Berlusconi: il numero uno del Carroccio può parlare con Di Maio, mentre il re di Arcore no. I grillini, com’è noto, rifiutano l’interlocuzione, il dialogo diretto, con l’ex premier. Che, però, non dispera di instaurare un rapporto con l’aspirante presidente del Consiglio grillino.
Ma nonostante questi veti e queste pregiudiziali da parte pentastellata, l’ex Cavaliere, più che a mettere in difficoltà Di Maio, sta cercando di marcare a uomo Salvini, del quale teme pure il colpo di tosse. Una strategia rischiosa, ma comprensibile sul piano umano. Berlusconi non si è ancora ripreso dallo choc del sorpasso portato a termine dall’alleato in cabina elettorale. Dal 4 marzo tutte le sue iniziative sono state concepite per tastare e testare il tasso di fedeltà leghista al centrodestra. Anche il nome di Romani per la presidenza del Senato doveva servire a mettere Salvini di fronte a un aut aut: o con Di Maio o con me.
Poi Salvini ha reagito con la carta Bernini, sapendo di mettere una bomba sotto la coalizione. E, dopo una notte agitata, si è trovata la quadra che conosciamo. Con Berlusconi che ha mollato il suo candidato originario.
Inutile dire che ogni ferita lascia le sue cicatrici. E bisognerà vedere quanto tempo trascorrerà per sanare, nel centrodestra, i postumi dello strappo di venerdì sera. Un Berlusconi meno accecato dal desiderio di rivincita nei confronti di Salvini, si sarebbe concentrato sui passi necessari per contrastare l’avanzata grillina. Ma oggi Berlusconi non vede l’ora di riconquistare il suo ruolo decisivo nell’alleanza. Un Berlusconi meno ossessionato dal protagonismo salviniano non avrebbe dovuto fare le barricate sul nome di Romani, per poi rinunciare alla sfida. Pur non avendo un contatto diretto con Di Maio, il condttiero forzista avrebbe potuto inviare da sùbito segnali di disponibilità su un nome, diciamo così, meno divisivo. Ma, si sa, la politica è soprattutto un concentrato di umori, ripicche, debolezze umane, cerchi magici impazziti.
Ora. Il compromesso istituzionale siglato ieri potrà tradursi in un compromesso politico per la formazione del nuovo governo? Qui, il discorso si fa più complicato. Non tanto per la peculiarità, per le caratteristiche del giocatori in campo. Quanto per l’incompatibilità tra il piatto forte (flat tax) della Lega e il piatto forte (reddito di cittadinanza) del M5S. Dipendesse da Di Maio e Salvini, che in questi giorni si sono sentiti tra loro più che con le rispettive amorose, un giro di valzer insieme si potrebbe fare. Un anno. Due anni. Poi si vede.
Ma flat tax e reddito di cittadinanza sono due progetti, due mondi contrapposti, come il mare e la montagna. La flat tax è servita a Salvini per fare accettare ai suoi elettori settentrionali il cambio di strategia: da Lega Nord a Lega Italia, dall’indipendentismo al sovranismo, dall’autogoverno fiscale alla responsabilità nazionale. Il ragionamento salviniano rivolto allo zoccolo duro dei padani è stato più o meno il seguente: «È vero. Abbiamo promosso due referendum per l’autonomia, in Lombardia e Veneto. È andata benissimo. Ora vi aspettate interventi concreti in tal senso. Calma, però. Ci e vi conviene? Io vi dico che quello che perdereste rinunciando all’iperfederalismo fiscale lo recuperereste con la flat tax, cioè con la rasoiata alla foresta delle tasse. Nel frattempo, grazie a questo testacoda programmatico la Lega potrà esapandersi anche al Sud e moltiplicare i propri voti. Che dite?». Affare fatto. Salvini al Nord ha realizzato il pieno di schede elettorali. E al Sud ha messo le radici.
Il reddito di cittadinanza, voluto dai grillini muove da una concezione opposta: specie nel Meridione s’allargano le aree di disperazione, ergo bisogna agire per scongiurare i rischi di implosione sociale. Tesi, questa, che nel Settentrione, molti considerano più blasfema di una bestemmia davanti all’altare.
Oddio, ci sarebbe, un potenziale arbitro, in grado di avvicinare Di Maio e Salvini. A una condizione, però: che entrambi rinuncino all’idea chiave dei loro rispettivi programmi di governo. Questo arbitro si chiama Europa. L’Europa ha già comunicato che ci attende una manovra da 30 miliardi a fine anno. Una cifra choc in grado di raggelare sul nascere qualsiasi proposito di flat tax e di reddito di cittadinanza, che già richiederebbero, presi singolarmente, una somma da capogiro. Figuriamoci con una nuova manovra.
Giuseppe De Tomaso
detomaso@gazzettamezzogiorno.it