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Tutti sudditi col debito pubblico alle stelle

 

Giovedì 17 Maggio 2012, 12:27

03 Febbraio 2016, 00:58

di GIUSEPPE DE TOMASO
Le agenzie di rating americane non saranno un consesso di anime candide, ma di sicuro non è colpa loro se nel primo trimestre 2012 l’economia tedesca è cresciuta dello 0,5% mentre il Pil italiano è calato dello 0,8%. Incolpare gli analisti finanziari stranieri per i dati allarmanti sulla recessione italica è come accusare un medico di aver diagnosticato il tumore a un signore pieno di metastasi. I fatti sono molto più testardi delle opinioni e delle ideologie. È un fatto che tutte le politiche orientate a contrastare la crisi con una bella paccata di tasse (direbbe il ministro Elsa Fornero), dirette e indirette, producono l’effetto contrario, vale a dire l’aggravarsi della malattia, cioè della depressione economica.

Monti sostiene che l’Italia potrebbe riprendere a crescere del 6%, roba da insidiare i cinesi, se fossero realizzate le tanto auspicate riforme. Purtroppo, di riforme non si vede nemmeno l’ombra. Anzi, l’impressione generale è che stia prevalendo la cultura del «pasto gratis» (ovviamente a carico dello Stato). La spia di questa regressione concettuale si chiama debito pubblico. Pur convenendo, tutti, a parole, che il super-debito pubblico potrebbe rappresentare per gli italiani ciò che molti secoli fa il Vesuvio costituì per gli abitanti di Pompei e Ercolano, la vulgata corrente sembra invocare un nuovo supplemento di spesa facile, ossia una nuova maxi-rata debitoria. Evidentemente lo sport di scherzare col fuoco non allarma vaste aree della nomenklatura, tanto provvederà la fiscalità generale ad assicurare le risorse per l’agognata crescita. Ma si può riattivare la crescita a suon di cambiali, cioè di nuove tasse? Sarebbe come consigliare a una persona «finanziata» dagli usurai di rivolgersi ad altri strozzini per rimborsare le somme dovute ai primi: anche un bambino si accorgerebbe che, così facendo, il debitore affretterà il fallimento, o il default, come va di moda dichiarare adesso.

La conferma arriva dalla prima tranche del pacchetto Monti. Anziché fermare la decrescita produttiva, il piano anti-crisi del Professore ha dato la sensazione di averla accelerata. La pioggia di tasse ha impoverito famiglie e imprese, assestando un duro colpo alla dinamica dei consumi. Non solo. Gli investitori internazionali, di fronte a uno scenario tutt’altro che rassicurante - dal momento che i debiti di oggi sono le tasse di domani - hanno ricominciato a prestare soldi solo in cambio di lauti interessi, rilanciando sulle prime pagine dei giornali una parola - spread (differenziale dei rendimenti) - che fino a pochi mesi fa avrebbe fatto pensare a qualche diabolica novità in materia di schemi calcistici.

Eppure, tutto autorizza a pensare che la stagione delle tasse non sia affatto terminata. Anzi, forse è appena cominciata. Lo si deduce da questa semplice constatazione: la classe dirigente non ha alcuna intenzione di mettere a dieta lo Stato, eliminando sprechi, vendendo beni ai privati, scompaginando monopoli e corporazioni. E siccome, per ribaltare l’espressione precedentemente adoperata, nessun pasto è gratis, anche lo spirito più digiuno di nozioni economiche prenderà atto che le tasse non smetteranno mai di salire, fino al punto, di questo passo, di sotto-proletarizzare i proletari, di proletarizzare il ceto medio e di suggerire ai più ricchi di trasferire o investire altrove i loro capitali.

Certo. Fare previsioni è rischioso. Ma quando sono in ballo i numeri allegri della spesa, è più difficile prendere cantonate, visto che non ci vuole un genio per pronosticare inverni gelidi per le cicale e inverni miti per le formiche. Di tasse in tasse, lo scenario prossimo venturo del Belpaese non si discosterà da questa descrizione: uno Stato che intermedia il 70-80% della ricchezza prodotta; una drastica riduzione di stipendi e pensioni; un sensibile appiattimento, verso il basso, dei diversi livelli di reddito; una decrescita costante del Pil; una condizione di depressione psicologica, prima che economica.

Ora. Il capitalismo è un sistema denso di difetti e contraddizioni. Ma solo un analista affetto da daltonismo ideologico potrebbe oggi sostenere che la crisi e la decrescita vadano addebitate (solo) alle imperfezioni del mercato. Anche perché a breve risulterà obietticamente acrobatico argomentare che un modello economico, in cui l’intermediazione statale raggiunge l’80% per cento delle attività umane, potrà ancora essere etichettato come capitalistico. E se tutto, o quasi, sarà in mano allo Stato, vorrà dire che tutto o quasi sarà gestito dalla politica, più precisamente da quella classe politica contro cui scagliano, sempre più di frequente, i fulmini dell’antipolitica. Paradossale, no? Da un lato si accusa il mercato di ogni nefandezza, dall’altro si incrementa la penetrazione, in economia, delle leadership politiche accusate di governare come feudatari viziati.

Ecco. Se non si realizzerà il miracolo della ripresa, vivremo in un’Italia sempre più feudale: tutti o quasi, malpagati o sottopagati, alle dipendenze del Principe e degli altri detentori del potere: gli unici che potranno mangiare brioche se il pane scarseggerà.
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