In un mondo di dietrologi e retroscenisti, è da presumere che la vicenda dei vaccini AstraZeneca farà scorrere fiumi d’inchiostro - come si diceva una volta - chissà per quanti mesi o addirittura anni. Voluto dalle autorità scientifiche lo stop alle dosi del colosso anglo-svedese? Deciso dalle autorità politiche per ragioni di prestigio o di egemonia nazionale? Imposto dai Poteri Forti del momento per calcoli inconfessabili? E potremmo continuare all’infinito.
Si dirà e si scriverà di tutto e di più. Salvo trascurare un dato elementare: non appena si verifica un imprevisto, vedi - come è accaduto - qualche effetto collaterale all’indomani di un’inoculazione vaccinale, si scatena il putiferio.
Né vale ricordare che non esiste un farmaco sicuro al cento per cento, e che le rarissime reazioni corporee negative su milioni e milioni di vaccinazioni non fanno testo. Primo, perché è tutta da dimostrare la correlazione tra iniezione e condizione di disagio successiva. Secondo, perché anche se la correlazione fosse dimostrata, la statistica consiglierebbe sempre di non interrompere la somministrazione delle dosi, visto che la stragrande maggioranza della popolazione non solo non ha avvertito alcun sintomo fastidioso, ma ne ha tratto sicuro giovamento.
La verità è che la demonizzazione del rischio non riguarda soltanto la salute, ma tocca tutti gli aspetti e tutte le discipline dell’esistenza umana.
Nessuno è più disposto a rischiare qualcosa, in qualunque campo, anche se il margine di rischio fosse pressoché impercettibile. Sono pochissimi quelli che ragionano diversamente. E pensare che il rischio è alla base del progresso umano. Senza il Fattore Rischio, lo stesso profitto economico sarebbe ingiustificato. Che cos’è il profitto, infatti, se non la contropartita, il rimborso, il premio di un’operazione rischiosa? Avrebbe senso un investimento senza rischio? Un investimento senza rischio evocherebbe il concetto di rendita, che sta alla vivacità produttiva come la lumaca sta alla velocità, o la pigrizia all’operosità.
Semmai è, anzi dev’essere, il probabile, il probabilismo, la bussola più adatta a guidare la navigazione di uomini e donne. Per una semplice ragione: non ci sono rotte prive di insidie, non esistono le certezze assolute. Né, ce ne potrebbero mai essere.
Lo sottolineava già il filosofo greco Aristotele (384-322 avanti Cristo), capostipite della cultura occidentale, quando scriveva che il probabile è l’opinione sostenuta dai più. Forse Aristotele peccava di ottimismo o di eccessiva fiducia, visto che lo scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986) mette in bocca al protagonista di un suo racconto questa esclamazione: «Ho conosciuto ciò che è ignoto ai greci: l’incertezza». L’incertezza, la compagna di sempre.
Sta di fatto che per secoli il mondo ha rincorso dogmi e assolutismi, tutti nemici di un’idea di società fondata sul rischio e sul probabilismo, che, in verità, non sono altro che il riconoscimento, la ratifica dell’umana imperfezione. Questa ossessione del dogmatismo cognitivo e previsionale si è interrotta solo con l’avvento della scienza moderna, l’affermazione dell’illuminismo e il successo della società industriale.
Adesso sembra che il pendolo della storia stia indietreggiando, indirizzandosi nuovamente verso la concezione di un mondo che funzioni, o debba funzionare per forza, come un meccanismo a orologeria. Ma così non è mai stato, né mai sarà. Il Cigno Nero, cioè l’imprevedibile, l’inatteso, è l’essenza della vita quotidiana. Tutti i progetti pubblici e privati, tutti gli strumenti - ad esempio i vaccini - utili a migliorare la condizione generale, non potranno che basarsi sempre sul principio (ineliminabile) del probabilismo. Beninteso. Più un’iniziativa, una scoperta, una cura medica vedono crescere le proprie percentuali di efficacia e validità, più vanno incoraggiate e applicate.
Ma nessuno dovrà o potrà mai pretendere la certezza assoluta sulla garanzia di riuscita al 100% di una terapia. Se così fosse, vorrebbe dire che il genere umano ha acquisito conoscenze divine.
Fu il sociologo tedesco Ulrich Beck (1944-2015) a definire la società contemporanea come la «società del rischio». Un rischio, però, sempre più avvertito, anno dopo anno, ora come paura ora come minaccia. Di qui il ripudio, ogni giorno più diffuso. Il che non è di buon auspicio per il futuro di tutti noi.
Un conforto e un suggerimento potrebbero arrivare dall’esempio e dal linguaggio della meccanica quantistica, che rappresenta la risposta più scientificamente attrezzata al principio deterministico della meccanica classica. La teoria dei quanti - spiega il fisico teorico Carlo Rovelli nel suo ultimo volume Helgoland - con le sue fantasmatiche onde di probabilità non si è limitata a favorire ogni sorta di applicazione tecnologica, ma ha contribuito, più di ogni altro ideificio, alla comprensione dell’universo.
Eppure. Eppure, nonostante gli spettacolari progressi scientifico-tecnologici grazie alla concezione probabilistica avvalorata soprattutto dalla teoria dei quanti, non si contano gli alfieri (veterani e matricole) del determinismo storico, che, al dunque, considerano il rischio più esecrabile del diavolo e le probabilità più pericolose delle guerre militari.
La diffidenza, se non la contrarietà verso le vaccinazioni, è anche figlia di questo originale peccato culturale.