Se ne va con lui un pezzo di storia barese, quella satolla dell’ostentazione, delle feste, delle mazzette, della bellavita. Francesco Cavallari è morto a Santo Domingo con nel cuore la spina della nostalgia. Per Bari, ad esempio, in cui non era ancora mai riuscito a tornare, poi anche per le sue cose perdute: il potere, i soldi, i sentimenti.
Uno squalo, un benefattore, un santo, un demonio. Chi può dire realmente chi sia stato Cicci? Un uomo venuto dal basso, diciamo, per semplificare. Informatore farmaceutico che aveva imparato a bussare alle porte col sorriso, a incassare rifiuti e a riprovare. E riprovare. Un’arte, quella di chiedere e comunque, infine, ottenere. Esportala su vasta scala ed ecco che nascono una decina di splendide cliniche private e un tesoro da 350 miliardi di lire (almeno quelli trovati e sequestrati). Tra i beni che lo Stato gli tolse, anche la favolosa villa in uno dei più bei viali alberati di Bari.
Ogni mattina - siamo nei primi anni Novanta - decine di persone aspettavano che Cavallari uscisse dal cancello, a bordo dell’auto ovviamente con tanto di autista. Era un assalto quotidiano: madri che chiedevano un lavoro per i propri figli, disoccupati, ragazzi, anziani. Questa era l'immagine pubblica, l’uomo che sapeva aiutare le persone in difficoltà, che assumeva in modo generoso e autentico. Poi scoprivi che tra i suoi 4.200 dipendenti (tanti, vero?) c’erano figli, fratelli e padri dei peggio criminali di Bari.
E generoso lo era anche con assessori e politici, con colletti bianchi, amici, conoscenti & affini. Il perno di un sistema di malaffare, secondo la magistratura ad esempio, ma anche il terminale del malaffare barese che in quegli anni Novanta imbastiva trame di formidabile arricchimento. Una città spregiudicata capace, in quegli anni, di incendiare un teatro, di lottizzare aree verdi, di edificare a due passi dal mare, di scegliere la classe politica e i professori universitari.
Eppure, come spesso si è detto, quel teorema sulle commistioni tra affari, crimine e politica si è sciolto al sole dei Tribunali e delle Corti d’Appello. Quand’anche sia riuscito a tenere i due gradi di giudizio, a scioglierlo ci hanno pensato i giudici della Suprema Corte. Possiamo dunque giungere alla conclusione che Cavallari sia stato una vittima del sistema giudiziario? Molti lo affermano. I suoi segreti, di fatto, se ne sono andati con lui. Ma al di là delle verità processuali e quelle di un’inchiesta durissima da portare avanti nel porto delle nebbie , a distanza di quasi trent’anni, dai cassetti salta fuori una lettera che l’imprenditore scrisse dal Centro clinico di Pisa dove era in regime detentivo, ad Alberto Maritati, autore di quella inchiesta. Una lettera nella quale annuncia la volontà di collaborare con le indagini, di fare i nomi, di svelare il sistema. Una lettera che lascia a bocca aperta non già per le esplosive rivelazioni che Cavallari si appresta a fare, quanto per l’amarezza che trasuda.
«Tutti hanno preso le distanze» si legge tra l’altro. E in un apparente innocuo post scriptum, la descrizione di tutta la sua sofferenza. Fisica e morale: «La prego di evitarmi il viaggio in ambulanza o in cellulare per cui è una vera tortura. Il viaggio di sabato è stato allucinante. Se non sono crepato vuol dire che il Signore pensa a me, a tutto il bene che ho fatto ricevendo in cambio solo indifferenza alla mia tragedia che sto vivendo».