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Autostrade, ospedali e interesse pubblico

 
Giovanni Valentini

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Giovanni Valentini

ponte Morandi

Il ponte Morandi prima e dopo il crollo

Dalle autostrade agli ospedali, il virus delle “privatizzazioni” ha contagiato infine anche il sistema sanitario nazionale

Mercoledì 18 Novembre 2020, 13:33

Quando l’autostrada Bari-Napoli era lunga soltanto 70 chilometri e finiva a Canosa, in attesa che fosse completato il tratto che attraversa l’Irpinia, di tanto in tanto noi giovani neo-patentati andavamo in macchina fino all’ultimo casello e tornavamo indietro per assaporare il gusto della modernità, del progresso, dello sviluppo. Quello era, ai nostri occhi, un anticipo del futuro, un presagio o un auspicio di crescita a livello individuale e collettivo. L’Autostrada del Sole era, in qualche modo, il simbolo della civiltà.

Con il crollo del ponte Morandi a Genova, e gli ultimi sviluppi della vicenda giudiziaria che ha coinvolto la famiglia Benetton, si può sperare ora che sia finita un’epoca. Quella delle concessioni facili, delle privatizzazioni selvagge, dei beni pubblici venduti o svenduti a prezzi di favore. Il caso delle autostrade dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, che non sempre il privato è meglio del pubblico. E anzi, spesso il privato si comporta peggio per la semplice ragione che insegue il profitto, senza curarsi troppo degli investimenti, dell’occupazione, dell’ordinaria manutenzione e quindi dell’interesse pubblico: cioè, nello specifico, dell’incolumità dei cittadini.

L’arresto di Giovanni Castellucci, ex amministratore delegato della società Autostrade, accusato insieme ad altri top manager di attentato alla sicurezza dei trasporti e frode nelle pubbliche forniture, rivela una cultura o incultura economico-amministrativa che nel corso del tempo ha depredato l’Italia e danneggiato lo Stato. Una “razza predona”, si potrebbe dire, parafrasando il titolo di un famoso libro di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani pubblicato a metà degli anni Settanta. Dalle intercettazioni agli atti dell’indagine parallela sul crollo del ponte Morandi, emerge che i dirigenti di Autostrade non solo sapevano che le barriere fonoassorbenti erano difettose ma anche che hanno cercato in tutti i modi di occultare le prove: un cinismo manageriale misto all’avidità imprenditoriale. Fatto sta che nel 2017, in base agli ultimi dati certi disponibili, i ricavi per la Società dei Benetton sono stati pari a 3,9 miliardi di euro con un utile lordo di 2,4, mentre gli investimenti operativi sulle infrastrutture in concessione sono scesi dai 232 milioni del primo semestre di quell’anno ai 197 dell’anno successivo: pedaggi d’oro, quindi, sicurezza al minimo.

Sappiamo bene che questa “cuccagna” non è avvenuta soltanto sulla rete autostradale. Purtroppo, è stata replicata – come in una serie televisiva di successo – in tanti altri campi, attraverso la “Grande Dismissione” delle partecipazioni statali: dalle telecomunicazioni alle banche, dall’Eni (energia) alla Sme (agroalimentare) e così via. E noi pugliesi, abbiamo assistito più da vicino al disastro dell’ex Italsider di Taranto, perpetuato poi dall’ex Ilva della famiglia Riva e infine da Arcelor Mittal: un disastro economico, industriale, ambientale e sanitario che ha investito con la violenza di un uragano l’intera città e la sua popolazione. Un paradigma che può rappresentare su scala planetaria la falsa contrapposizione fra salute e lavoro, in realtà l’una complementare all’altro e viceversa.

La verità è che non esistono vere privatizzazioni senza la liberalizzazione dei rispettivi mercati. Accade perciò che a un monopolio pubblico subentri un monopolio privato, peggiorando piuttosto che migliorando la situazione. Tant’è che, secondo uno studio elaborato dalla Corte dei Conti nel 2010, in genere le aziende ex pubbliche passate in mani private hanno aumentato la redditività, ma incrementando le tariffe e senza sostenere molti investimenti.

È una logica analoga a quella che ha ispirato la grande industria nazionale: privatizzare i profitti e pubblicizzare le perdite, scaricandole magari sullo Stato. È vero, per esempio, che la Fiat ha costruito diversi stabilimenti al Sud, da Melfi in Basilicata a Pomigliano d’Arco in Campania e a Termini Imerese in Sicilia, per creare occupazione e ottenere in cambio finanziamenti pubblici, diventando così in pratica un’azienda più meridionale che settentrionale. Ma a suo tempo arrivò a detenere oltre il 51% del mercato nazionale dell’auto, in forza dei dazi sull’importazione di veicoli stranieri, realizzando utili per migliaia di miliardi di lire a ripetizione. E come si sa, il nostro cosiddetto “capitalismo familiare” non è insediato soltanto a Torino.

Dalle autostrade agli ospedali, il virus delle “privatizzazioni” ha contagiato infine anche il sistema sanitario nazionale. Qui lo strumento è stato quello delle convenzioni regionali, per cui molte cliniche private hanno sostituito di fatto le strutture ospedaliere che sono state via via ridotte o smantellate, con i risultati nefasti che l’epidemia ha drammaticamente prodotto e continua a produrre. La salute ormai è ridotta a un business.

Per non parlare delle residenze per anziani, anch’esse convenzionate o accreditate, epicentro della “strage dei nonni” provocata dal Covid-19.
È ora, dunque, che lo Stato riprenda in mano il controllo e la guida dell’apparato pubblico, non già per assumerne direttamente la gestione bensì per indicare le linee strategiche, per orientarne e controllarne il funzionamento. Non più uno Stato-padrone, ma piuttosto uno Stato-regolatore. S’è detto che la pandemia da coronavirus è stata, e purtroppo è tuttora, una “guerra mondiale”. E allora - sull’onda del Recovery Fund europeo, ammesso che arrivi - è necessario avviare una ricostruzione nazionale sul piano industriale, produttivo e occupazionale.

Tutto ciò deve avvenire, però, al di fuori di una visione assistenziale, clientelare, parassitaria; all’insegna della trasparenza; in base a criteri precisi e standard definiti. Non abbiamo bisogno di altri “carrozzoni di Stato”. Ma piuttosto di strutture moderne, efficienti, funzionali rispetto agli interessi e alle esigenze dei cittadini. Senza rievocare qui la polverosa polemica fra Benedetto Croce e Luigi Einaudi sulla presunta differenza fra liberismo (economico) e liberalismo (politico), limitiamoci a dire che la libertà economica resta il caposaldo di una società democratica, ma deve conciliarsi con le ragioni dell’equità, della giustizia sociale e della convivenza civile. Altrimenti, si rischia di compromettere sia la libertà sia la democrazia.

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