Non tutto ciò che è lecito è morale. Dovrebbe essere un’ovvietà, specie per una classe dirigente, la cui credibilità si fonda, o si dovrebbe fondare, più sulla linearità dei comportamenti che sulla stessa coerenza dei ragionamenti. Invece, no. Complice una mentalità sempre più diffusa e tracimante, che porta a considerare la cosa pubblica, cioè la cassa pubblica, come un bancomat da cui prelevare a più non posso, anche il bonus-Covid ha eccitato la libido della Razza Predona, simbolo della concezione estrattiva del potere.
Non è il caso di generalizzare e di fare, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio, ma i numeri di quanti, tra politici, amministratori e mandarini vari, hanno chiesto il sussidio di 600 euro mensili per fare fronte alla «crisi» originata dalla pandemia, sono eloquenti, anzi allarmanti. Il che suscita più di un interrogativo sui criteri che inducono molti eletti a legiferare e ad amministrare: solo bene comune, sia pure di facciata? O anche, o soprattutto, priorità agli interessi privati, individuali?
Una vasta letteratura in proposito suggerisce di diffidare di chi in nome della solidarietà persegue (invece) obiettivi indecenti, di saccheggio delle finanze pubbliche e di spoliazione dei contribuenti in regola con le leggi.
In effetti, se la spesa destinata al riequilibrio delle disparità sociali fosse davvero destinata allo scopo dichiarato, il problema della povertà, in Italia, sarebbe stato risolto da tempo. Purtroppo, gran parte delle risorse destinate ad alleviare le sofferenze di chi si trova più in basso nella scala dei redditi, viene spesso intercettata dai professionisti dell’intermediazione e della spoliazione, pratica che, a sua volta, genera una spirale infinita, dal momento che più quattrini sfuggono alle destinazioni prefissate più quattrini servono per rimediare alle nuove disuguaglianze.
Ormai, è un copione che si rinnova con puntualità. Non vi è iniziativa pubblica che non venga utilizzata dai campioni dell’illegalità di massa per alimentare condotte sconce e inconcepibili. Il guaio è che il fenomeno, anziché comprimersi, tende sempre ad allargarsi. Il Sud per molti anni è stato messo in croce per le eccessive pensioni di invalidità elargite nelle sue regioni (poi si è visto che le percentuali dei beneficiari erano in linea con quelle del Nord). E comunque. Pur convenendo che parecchi assegni di invalidità non possedevano lo stigma della correttezza e della indispensabilità, bisogna riconoscere che quei sostegni hanno fatto da cuscinetti, da ammortizzatori ai disagi delle fasce più deboli della popolazione.
Ma il caso scandaloso dei bonus chiesti e ottenuti da politici e da amministratori carichi di indennità e gettoni dimostra che la mentalità assistenzialistica non riguarda soltanto la parte meno fortunata del Paese, spesso costretta a pietire l’obolo di stato per ragioni di necessità, di sopravvivenza. La mentalità assistenzialistica dilaga nella parte fortunata e spesso privilegiata della nazione, in quella che non ha bisogno di sudare e sgobbare sul mercato per assicurarsi un posto di rilievo nella società. Dilaga così tanto questo retropensiero parassitario e lucrativo ai danni della comunità, che l’esercito della popolazione davvero attiva, non mantenuta dalla generosità pubblica, tende a rimpicciolirsi paurosamente, tanto che a breve non sarà bizzarra o immotivata la seguente domanda: c’è qualcuno che ancora lavora in Italia? E se non c’è nessuno, o sono pochissimi, a farsi in quattro per produrre, come sarà possibile ripartire con forza dopo la batosta pandemica patita in questi mesi? Non sanno questi disinvolti signori che prima o poi i soldi e gli aiuti degli altri finiscono?
Per fortuna l’Italia non è tutta uguale. Anche se si assottiglia la percentuale di volenterosi e laboriosi, che poi sono i veri solidali, ci troviamo pur sempre davanti a una percentuale in grado di trainare il resto del Paese. Dovrebbe essere additata ad esempio questa espressione della società che non intende mollare per convertirsi al sussidio pubblico. Invece, il più delle volte, è considerata, per citare un grande dell’economia, come un gregge da tosare senza pietà sul piano fiscale. La qual cosa, oltre a rappresentare una palese ingiustizia, costituisce un clamoroso disincentivo a operare secondo criteri di legalità e moralità.
Che un Paese debba sostenere chi è in difficoltà, non ci piove. Ma che un Paese debba sposare l’assistenzialismo fino al punto da consentire, paradossalmente, che la solidarietà indiretta da parte della gente normale debba servire a ingrossare l’estratto conto della borghesia o del clero di stato, beh questo francamente è troppo. Troppo scandaloso, troppo vergognoso. In una parola: inconcepibile.
Ma, si sa, passato il santo, passata la festa. Dopo la grancassa di questi giorni contro - si sarebbe detto una volta - i profittatori di regime, si tornerà all’andazzo di prima. Mettere le mani sullo stato, così come gli speculatori-affaristi-politicastri del film di Francesco Rosi (1922-2015) mettevano le mani sulla città.