La questione “covid-19” ha riportato al centro dell’attenzione del dibattito (nella luce più sinistra) tutto il peso delle terrificanti difficoltà di cui un’intera classe dirigente è costretta a farsi carico: in una situazione però che, stavolta, diversamente dal passato, potremmo definire non ordinaria. Ci troviamo davanti a un evento eccezionale, di portata planetaria, assimilabile a una guerra o a una catastrofe naturale di incommensurabili proporzioni. Un evento non previsto e quindi difficilmente fronteggiabile con i soliti strumenti politici, giuridici, culturali sperimentati ‘in tempo di pace’. Resta però la sorpresa: molti osservatori si preoccupano di insistere sulla ‘non prevedibilità’ della pandemia in un’era in cui la principale fonte del sapere scientifico è proprio la statistica, con le sue computazioni del presente sociale e con le proiezioni nel futuro prossimo e remoto.
Accosto di ripetermi, penso invece che la questione vada impostata in termini diversi. Confesso sin da subito - e a scanso di equivoci - di non nutrire alcuna vocazione rivoluzionaria. Ma il vero problema è che non si vede (o per lo meno nessuno fino a questo momento è stato in grado di ipotizzare) una soluzione autenticamente ‘riformista’. E cioè una strategia capace di individuare e superare il problema mantenendo al contempo in piedi il quadro di riferimento economico e sociale (così come oggi esso è strutturato) dal quale discende la trama complessiva dei rapporti politici, giuridici, etici.
Non si può curare la malattia senza cambiare drasticamente e radicalmente il modo di vivere del malato. Giovanni Fiandaca, il mio Maestro, mi ha messo di recente in guardia dal rischio che posizioni come quella da me sostenuta possano farmi apparire una sorta di ‘giurista purista costituzionale’, troppo astrattamente principialista per comprendere le difficoltà oggettive che un’emergenza sanitaria gravissima e ad alto tasso di incertezza scientifica (come quella che stiamo attraversando) inevitabilmente pone ai decisori politici, quasi obbligandoli a praticare uno sperimentalismo di corto respiro.
Gli sono molto grato per questi rilievi, la cui fondatezza non escludo affatto. Ritengo però che la diffusione del coronavirus non abbia posto in realtà nessun problema ‘qualitativamente’ nuovo. Ha solo acceso i riflettori su uno stato di fatto dell’economia, della sanità, della scuola, dell’università, della ricerca scientifica, della giustizia, delle carceri, dell’assistenza agli anziani, della sicurezza nei luoghi di lavoro che si trascina da decenni. Di fronte alla crisi, le risposte delle classi dominanti e dirigenti – liberisti (USA) da una parte; statalisti (Cina) dall’altra – sono state sostanzialmente omologabili. Salvare il sistema, garantire collaudati meccanismi di accumulazione della ricchezza, evitare che esplodano le contraddizioni e che diventino ingovernabili. In questo quadro, la nostra italietta di maramaldi non sa come al solito in che direzione orientarsi. Confida in un miracolo. Nelle provvidenze dell’Europa che ci tirerà fuori dai guai. Magari inondandoci di ‘generosi’ prestiti a carico dei posteri.
È verosimile che, mentre l’Impero romano d’occidente declinava in una tragica agonia, qualcuno discettasse della quantità di sesterzi indispensabili al rilancio di un’economia - e di una politica - espansiva. Chi è immerso nella quotidiana fatica di assistere alla agonia di un mondo che muore difficilmente percepisce sino in fondo la discontinuità della quale è inconsapevole spettatore. “Quando ho esaurito le giustificazioni, arrivo allo strato di roccia e la mia vanga si piega” scriveva Wittgenstein nelle sue Ricerche filosofiche.
Bisogna accettare l’ineluttabilità di una storia che, a un certo punto dello sviluppo umano, pone un dilemma drammaticamente banale: o “mangiare le brioches” o riappropriarsi del pane. Nel caso di specie, il bivio si colloca tra diritto alla salute e diritto a un’esistenza ‘normale’. Certo, i tempi di maturazione della coscienza degli attori coinvolti sono lunghi. E solo a posteriori gli storici riusciranno – forse - a dare pienamente un senso a un dramma surreale per figli, nipoti, amici che non hanno potuto nemmeno vedere morire i propri cari, a differenza di quanto accadeva nei lazzaretti ove l’accesso per visitare gli appestati era, di massima, consentito.