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Dopo il ponte, errori e sfide tra privato e pubblico

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

ponte Morandi

Il ponte Morandi prima e dopo il crollo

Meno male che il Morandi di Genova è stato ricostruito in tempi iper-veloci per i canoni italiani altrimenti le conseguenze della tragedia (43 morti) avrebbero vieppiù messo a nudo i limiti e le debolezze strutturali del cosiddetto Belpaese

Giovedì 16 Luglio 2020, 15:17

Meno male che il ponte di Genova è stato ricostruito in tempi iper-veloci per i canoni italiani, altrimenti le conseguenze della tragedia (43 morti) di due anni or sono avrebbero vieppiù messo a nudo i limiti e le debolezze strutturali del cosiddetto Belpaese. Ad esclusione dei familiari delle vittime, nessuno poteva e può, tuttora, scagliare la prima pietra alla luce del crollo e del post-crollo dell’opera progettata, nel capoluogo ligure, dall’ingegner Riccardo Morandi (1902-1989). Non può certo scagliare la prima pietra, anzi, il gestore di Autostrade che, sulla manutezione del Ponte, ha inanellato una spirale di distrazioni (eufemismo) da restare tutti basiti, sconcertati e increduli. Non può scagliare la prima pietra lo stato centrale che si è disinteressato della condizione in cui versava un manufatto di sua proprietà. Del resto anche i ponti gestiti direttamente dalla mano pubblica talora cedono di schianto (per omessa cura), come è accaduto lo scorso 8 aprile ad Albiano Magra (Massa Carrara), quando solo il lockdown, cioè il blocco della circolazione, ha impedito che il bilancio del crollo fosse simile al bollettino di morte registrato a Genova nell’agosto 2018.

La famiglia Benetton è proprietaria al 30 per cento di Atlantia, impresa che a sua volta controlla la società Autostrade (Aspi). Atlantia è una società (quotata in Borsa) che ha il 70 per cento di azionisti terzi nazionali e internazionali, tra cui rilevanti fondi sovrani e investitori a lungo termine, del tutto estranei al giro del gruppo trevigiano. I Benetton non sono i padroni di Autostrade, ma ne sono, diciamo, gli azionisti di riferimento. Il che non è poco. Il che avrebbe dovuto suggerire loro una condotta opposta a quella tenuta dopo il patatrac del ponte Morandi. Anziché scaricare, dopo diversi giorni dalla sciagura, ogni responsabilità sul management, anziché confermare il tradizionale party agostano sulle Dolomiti, la famiglia Benetton (notoriamente sensibile ai precetti della comunicazione) avrebbe dovuto - come si dice - mettere subito la faccia, e non solo quella, assumendosi senza esitazioni la responsabilità (indiretta) per l’accaduto. Avrebbe dovuto presentarsi prontamente a Genova, avrebbe dovuto far visita alle famiglie delle 43 vittime e ai numerosi feriti, Insomma avrebbe dovuto manifestare la propria vicinanza umana, e anche solida, nei riguardi di tutti gli sventurati. Di sicuro non sarebbe bastato a lenire il dolore di superstiti e parenti, di sicuro, però, un gesto di immediata solidarietà avrebbe mitigato i danni d’immagine subiti dalla multinazionale tessile fondata nel 1965. Almeno sul piano socio-comunicativo quel gesto (non fatto) avrebbe giovato assai. Invece.

DOLORE - Nel maggio 2009, nella raffineria della Saras (Gruppo Moratti), nel Cagliaritano, tre operai persero la vita e due rimasero feriti mentre stavano pulendo una cisterna in un impianto di desolforazione. I Moratti non si limitarono a manifestare profondo dolore per l’avvenuta tragedia. Senza attendere l’esito del processo, che li vedrà assolti, i due petrolieri destinarono 5 milioni di euro alle famiglie delle vittime. Se i Benetton, dal primo momento, avessero fatto qualcosa di simile, anziché affidarsi ai comunicati stampa e allo scarico delle responsabilità, del crollo, sulla struttura burocratica, probabilmente oggi essi non campeggerebbero sulle prime pagine dei giornali per una vicenda, la concessione ad Autostrade, che automaticamente, inesorabilmente, richiama la strage genovese di due anni fa. Peraltro.

Il caso Autostrade è la fotografia più fedele del capitalismo all’italiana, sempre più tariffario e sempre meno propenso alla cultura del rischio. Quando in un Paese il sistema delle tariffe si fa preferire al sistema dei prezzi, significa che le cose non vanno come si deve e che il mercato e la concorrenza sono solo flatus vocis, proclami, suoni e basta. Il capitalismo tariffario è l’effetto pratico dei retropensieri estrattivi che tanto eccitano gli imprenditori più ammanicati con la politica. E un sistema estrattivo è l’esatto contrario di un sistema inclusivo, l’unico in grado di garantire tenuta sociale e fiducia nel futuro. Saranno gli storici dell’industria a spiegare come mai un’azienda modello, con un brand riconosciuto e affermato sul mercato mondiale, come Benetton, abbia, ad un certo punto, optato per le tariffe delle utilities (servizi pubblici) trascurando la sfida dei prezzi della manifattura (competizione privata). Lo hanno fatto forse perché è assai difficile fare impresa-impresa oggi in Italia, dove la certezza del diritto è più incerta di una finale di Champions.

GARA - Dicevamo che neppure lo Stato, cioè la politica, può scagliare la prima o la seconda pietra. Il caso Autostrade non è una bazzecola come la vendita di un negozio alimentare. Ha attirato, e continua ad attirare, l’attenzione dei governi (vero, Cancelliera Merkel?), dei mercati, dell’opinione pubblica più informata. Da come evolverà la vicenda, dipenderà il giudizio dell’Europa e del resto del mondo sulla possibilità e sull’opportunità di programmare investimenti in Italia. Gli stessi aiuti comunitari per l’emergenza economico-sanitaria da Covid 19 dipenderanno in parte dalle scelte italiche su Autostrade. Bisogna ricordare che l’Aspi e Atlantia non significano (significavano) solo Benetton, ma anche o soprattutto una pletora di azionisti grandi e piccoli. Giusto trattarli come se non ci fossero? Giusto attivare di fatto sostanziali espropriazioni nei loro confronti?
Finora l’intera politica italiana ha oscillato tra due soluzioni: revoca della concessione o «nazionalizzazione» della società. Si sta optando per la seconda, attraverso l’ingresso di Cassa Depositi e Prestiti e il siluramento (d’imperio) dei Benetton. Ma forse il male minore era la prima soluzione. Non foss’altro perché la statalizzazione della rete autostradale si annuncia più costosa di una spedizione su Marte, né di per sé l’irizzazione di Aspi costituirebbe una garanzia assoluta di sicurezza per automobilisti e viaggiatori vari (vedi il cedimento del ponte, in quota Anas, di Albiano Magra).

Comunque, che dire? Sul caso Autostrade, tra pubblico e privato, sembra in corso una gara a chi sbaglia di più.

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