Forse sarebbe stato meglio se gli Stati Generali sull’Economia, convocati dal governo nei giorni scorsi a Roma, si fossero aperti con la partecipazione degli ambientalisti piuttosto che ospitare il loro intervento in chiusura. La svolta che serve all’Italia per uscire dalla crisi economica e sociale, prodotta dall’epidemia di coronavirus, o sarà “green”, verde, ecologica oppure non sarà una svolta. Ma tant’è. Auguriamoci che gli impegni assunti in questa direzione dal presidente del Consiglio, prima e dopo il “summit” di Villa Pamphilij, vengano ora rispettati e attuati rapidamente per avviare la ripresa nel modo più incisivo ed equo possibile. Per il momento, si può dire comunque che questa non è stata soltanto una “passerella”, come temeva o pronosticava l’opposizione di centrodestra, bensì un confronto a tutto campo per compilare un’agenda nazionale.
Nel “pacchetto” di 33 proposte presentate al premier da Legambiente, l’associazione ambientalista più pragmatica e costruttiva, sono contenute le linee-guida per cominciare a “immaginare una nuova Italia”, come ha detto il premier Conte alla fine dei lavori: e cioè, meno burocrazia, più opere pubbliche e più mobilità sostenibile. Sulla necessità di una riforma della Pubblica Amministrazione, all’insegna della semplificazione e dell’innovazione digitale, avevamo già richiamato l’attenzione nelle settimane scorse su questo giornale: dalla “cultura delle procedure” che rallenta e paralizza l’apparato burocratico, bisogna passare alla “cultura dei risultati”. E non c’è bisogno perciò di aggiungere altro.
Quanto alle opere pubbliche, grandi, medie e piccole, Legambiente ne indica 170 che permetterebbero di risolvere 11 emergenze nazionali, tra cui citiamo il “caso Taranto-ex Ilva” come il più emblematico e urgente. Se non si riesce a risanare e convertire il più grande stabilimento europeo per la produzione dell’acciaio, si rischia di provocare una crisi dell’occupazione che può diventare una “bomba sociale”. Ma è chiaro, a questo punto, che la bonifica dell’impianto non potrà essere realizzata se non a carico o con la partecipazione dello Stato, in modo da conciliare due diritti fondamentali come la tutela della salute e la difesa del lavoro: altrimenti, nessun imprenditore privato si assumerà da solo questo onere prima di riavviare a pieno ritmo il ciclo produttivo.
Bastano pochi dati poi per documentare l’esigenza vitale di promuovere la cosiddetta “mobilità sostenibile”, cioè la possibilità per i cittadini, per i lavoratori e in particolare per i pendolari delle grandi città, di spostarsi regolarmente riducendo il traffico urbano e l’inquinamento che ne consegue. È proprio in queste aree che accusiamo il maggior ritardo infrastrutturale rispetto agli altri Paesi europei. La nostra dotazione di linee metropolitane, infatti, si ferma a 247,2 chilometri in 7 città in cui vivono 15 milioni di persone, contro i 672 chilometri del Regno Unito, i 649,8 della Germania e il 609,7 della Spagna. Il totale dell’Italia è inferiore o equivalente a quello di singole capitali come Londra (464,2 chilometri), Madrid (291,3) o Parigi (221,5). L’Istat riporta che 25,8 milioni di connazionali, circa il 42% della popolazione, vivono nelle 16 principali aree metropolitane dove il tasso di auto di proprietà è tra i più alti al mondo: 70,7 veicoli ogni 100 abitanti. In queste condizioni, è evidente che risulta compromessa la qualità dell’aria, della salute e della vita collettiva.
Sono già trascorsi, tuttavia, nove mesi da quando il 28 settembre 2019 il presidente del Consiglio annunciò il suo “Green New Deal” con una dotazione di tre miliardi di euro, parlando al Villaggio della Coldiretti di Bologna. E poco dopo, il 9 dicembre scorso, intervenendo al “World Energy Outlook”, specificò che lo stanziamento sarebbe arrivato a 59 miliardi nell’arco di 15 anni, incentivando le fonti rinnovabili a scapito di quelle fossili. Ebbene, a parte qualche pur apprezzabile provvedimento d’emergenza assunto durante il lockdown, come l’ecobonus al 110% per la riqualificazione energetica degli edifici e i contributi per i monopattini elettrici o per le biciclette, quell’impegno è rimasto praticamente sulla carta. Il “New Deal” verde deve ancora cominciare, ma non c’è più tempo da perdere.
Ora, come ha avvertito il vicepresidente di Legambiente Edoardo Zanchini nell’incontro a Villa Pamphilij, l’Italia non deve ripetere l’errore commesso dopo la crisi finanziaria del 2008, rinviando a tempi migliori le riforme e le scelte coraggiose. Il Paese ha bisogno di rilanciare gli investimenti, tagliati del 37% dal 2009 a oggi. Si tratta, da un lato, di scegliere gli interventi più efficaci per aiutare le famiglie e le imprese e, dall’altro, di aprire “cantieri diffusi” in tutti i Comuni, mettendo in moto un volume d’affari di circa 9 miliardi all’anno con 430mila occupati e risparmi in bolletta per gli utenti pari a circa 620 euro all’anno.
La crisi prodotta dal Covid-19 offre perciò una grande opportunità per avviare la svolta verde della nostra economia. Così l’Italia potrà tornare a essere davvero il Belpaese, curando e valorizzando l’immenso patrimonio dei suoi beni ambientali, culturali e artistici. Una méta privilegiata per il turismo che resta tuttora la nostra prima industria nazionale. E quindi un Paese più efficiente, moderno e civile, in cui la qualità della vita sia una garanzia per gli abitanti e un’attrattiva per gli stranieri.
Giovanni Valentini