Aprendo un giornale sono tentato da un’abitudine contratta da ragazzo, quando meditavo di intraprendere il lavoro del teatro: leggere prima le pagine degli spettacoli, esplorarle con minuscola voluttà, scrutare le notizie, condividere una critica o amareggiarsi per la pigrizia del critico che non si è avventurato a cercare di capire gli intenti artistici e ha liquidato la pratica con un “Bene tutti, cordiali applausi del rispettabile pubblico”. Ho detto “il lavoro del teatro”, non ho parlato di passione da assecondare o di sacri fuochi dilettanteschi. Ho detto il “lavoro del teatro”. È vero, mio padre, dopo aver seguito le prove di un allestimento delle mie prime armi artistiche, mi domandò se, poi, nella vita professionale, mi avrebbero pure pagato per quello che sembrava essere una meditata e irresistibile passione.
Si compiacque e, sotto sotto, orgoglioso e silente, non intercettò più la mia strada con lo scetticismo pedagogico largamente praticato in quasi tutte le famiglie: un luogo comune che mi fa tornare in mente un aneddoto che ho già raccontato in queste pagine il mese scorso. Eccolo.
Al mio amico Maurizio Micheli, bravissimo autore e attore, un burocrate del Municipio che doveva rilasciargli un documento chiese quale fosse il suo lavoro e Maurizio disse: “l’attore”. L’impiegato, infastidito, sbuffò e insistette: “Che lavoro fai?” E scandì la parola: la-vo-ro! Allora Maurizio era giovane, ma già lavorava e aveva un buon camerino. Il che voleva dire che il suo ruolo nelle compagnie non era secondario. Più tardi avrebbe “fatto ditta”, avrebbe, cioè diretto da capocomico. Ero giovane anch’io, posso testimoniarlo, avendo fatto regìe nella sua compagnia. Era bello che ci accomunasse il “lavoro del teatro”.
Quello che, oggi, manca: l’epidemia ha richiamato nella scena della storia le ombre cupe che fanno ammutolire i teatri, imprigionano gli interpreti nella cattività dalla disoccupazione che imprigiona i personaggi e zittisce gli interpreti. Ed è silenzio di retroscene in cui vagano come fantasmi. È inutile che io sfogli il giornale: la notizia non c’è che i teatri riaprono, che il lavoro possa riprendere. Anche il mio amico Pasquale Bellini, critico della nostra Gazzetta ha poco lavoro e non gli resta che sfogliare il catalogo dei ricordi. Una lunga quaresima desertifica i palcoscenici e spegne le luci. Il sipario non si apre.
“Lucarie’, scètate, songh’e nove.” Un’apertura di sipario memorabile. Un teatro perfetto. Pupella ciabattava intorno al lettone che nascondeva un sublime Eduardo infagottato e cominciava la minuscola e amara epopea famigliare di “Natale in casa Cupiello” con quel Presepio, quelle pecorelle, quei pastori innocenti e sbrecciati e quelle passioni domestiche accese di una normalità lancinante, quel quotidiano squadernato e impudico nella “parapettata” classica della scena di altri tempi con quinte e tramezzi, tela dipinta e fondalini colorati, quel caffè che spingeva il suo odore casalingo fino al loggione. E nel loggione del teatro Piccinni a Bari io ho visto Pupella Maggio recitare da par suo, magistralmente.
Non ho ancora visitato il restaurato Teatro Piccinni di Bari e mi piacerebbe verificare se c’ancora quel loggione scomodo con quella sbarra di ferro sulla quale i più fortunati della prima fila potevano appoggiare la fronte provocandosi cefalee feroci. Il ricordo di Pupella, di Albertazzi, di Peppino, di Lionello, di Randone, della Ferrati, della Moriconi mi sospinge con smagata malinconia nel ricordo del mio teatro Piccinni dove quella fortuna che sembra proteggere, talora, i teatranti, mi elargì la gioia istruttiva e determinante di frequentare il magistero artistico di Eduardo. E dove torno con la nostalgia e la memoria tutte le volte che la vita si incarica di ricordarci che nella sua scena si entra e si esce. L’importante è farlo alla grande. Era il tempo delle generose sventatezze che corredano la giovinezza e il teatro e la sua meravigliosa scuola mi regalavano un’esperienza vitale.
Ho citato solo alcuni degli artisti che applaudii al Piccinni, dimoranti per poche sere, ma imperiosamente padroni della mia fantasia e di quella del pubblico: ne andava doverosamente registrata una virtù sublime e preziosa: un carattere di pregio di cui sembra sempre più manchevole la scena contemporanea, la scena di quel “teatro di ragionieri e contabili” che tanto spiaceva a Paolo Grassi. Quel carattere è l’ironia. Ed io compresi che quell’ironia andava coltivata e custodita nel baule dei teatranti che si rispettino nel corredo dei copioni del repertorio, dei trucchi e degli orpelli, delle cartepeste e delle parrucche di ogni attore.
Per questo so che tutta la Compagnia, in questo momento, sorride, ma amaramente incredula. Nessuno di noi può capacitarsi della nostra disoccupazione, pur ammirati del coraggio di qualche eroe che recita per platee semivuote per via della distanziazione tra le persone resa obbligatoria da un minuscolo, impercettibile nemico dell’uomo e della sua arte.
Non avrei mai pensato che mi sarebbe venuta la nostalgia perfino di quelle tournée degli scavalcamontagne: soste magre, teatri freddi e pieni di spifferi, debutti faticosi, la paga insicura, scomodi camerini, alberghi “si fa per dire” e ristoranti dove è prudente ordinare “una mezza porzione di rigatoni al sugo, abbondante”.
Appena si riaprirà un teatro, vorrei radunare gli stati generali italiani dell’arte nostra, del nostro “lavoro”, per rileggere insieme un libro che Bellini e Micheli conoscono a menadito: “Il Teatro all’Antica Italiana” di Sergio Tofano. Descrive con inarrivabile eleganza e ironia quell’arte, quel “lavoro”. Cito solo un particolare: la struttura tipo di una compagnia: il “Padre nobile” e la “Madre nobile”, il “Prim’attore” e la “Prima Donna”, l’”Amoroso” e l’”Amorosa”, “l’attor giovane”, la giovane attrice”, il “Carattere”, il “Generico”, il “Promiscuo”. E, infine, il “Generico utilitè” per parti con parrucca e senza” che si definiva così sulla sua carta da visita per far capire che era calvo. Oggi tutti disoccupati. Vorrei leggere insieme alla gente del teatro e, quindi anche al pubblico questo libro e vorrei che fosse nel nostro Teatro Piccinni.