Tutti bussano a quattrini. Accade in tempi di pace, figuriamoci in tempi di guerra, come per certi versi è la battaglia anti-Covid. Il governo fa e promette quel che può, assediato com’è da mille postulanti, ciascuno dei quali con ragioni da vendere. Ma la coperta, si sa, per natura è assai corta non foss’altro perché le risorse, per definizione, sono assai scarse rispetto alle aspettative (ordinarie e straordinarie). Fossimo al posto del presidente del Consiglio non esiteremmo un nanosecondo nel dire sì ai soldi del Mes (Meccanismo europeo di stabilità), ripromettendoci di utilizzare strada facendo tutte le altre opportunità predisposte dall’Unione. Ma le coalizioni politiche sono, quasi sempre, più rissose di un pollaio, e iscriversi sùbito al partito del Mes scatenerebbe un putiferio. Di conseguenza non rimane che aspettare e mediare, mediare e aspettare, nella speranza che prima o poi spunti la ragionevolezza.
Nel frattempo nella splendida Villa Pamphilj prosegue l’arrembante processione dei richiedenti aiuti. Oltre ai soldi, quasi tutti sollecitano riforme a breve scadenza, anche se nessuno entra nel merito o si presenta con un progetto ben dettagliato.
Prevale la tentazione di balbettare, davanti alle telecamere, brevi cenni sull’universo, ad uso e consumo di tg e agenzie. Tanto, l’importante è essere citati. Non vogliamo rubare il mestiere al presidente del Consiglio, comunque ci dovrebbe essere un criterio nello stabilire gli interventi della mano pubblica a sostegno delle categorie in difficoltà. E pensiamo che Conte condivida e faccia valere questa premessa. Ad esempio: i dipendenti statali non hanno patito danni in busta paga dopo la chiusura di molte attività, a causa del Coronavirus. Viceversa molti settori privati hanno dovuto gettare la spugna e chissà se un domani risaliranno sul ring della competizione produttiva.
In ogni caso, un criterio sulle priorità d’intervento da parte della cassa centrale andrebbe stabilito. Da dove cominciare? Ne abbiamo parlato più volte in passato. Se la Costituzione è la bussola del Paese, non può essere tale solo nelle declamazioni convegnistiche o nelle ospitate televisive. Di conseguenza, la priorità va assegnata alle attività e alle funzioni di cui vi è traccia in Costituzione. Altrimenti la Carta Fondamentale dello stato merita di essere retrocessa a carta straccia pronta per il cestino. E siccome, tra le attività cui la Costituzione riserva un posto preminente figura l’informazione, e in particolare quella prodotta dalla carta stampata, non si capisce perché non si debba partire da qui nel confronto tra governo e parti sociali.
In verità il presidente Conte ha più volte sottolineato il valore essenziale dei giornali, il che gli va riconosciuto. Infatti qualcosa si sta facendo. Ma si avverte, complessivamente, una sensazione di fastidio, un sentimento diffuso di sottovalutazione, verso i problemi della carta stampata. Eppure se c’è un ramo produttivo che ha rischiato di spezzarsi durante il lockdown questo è proprio il comparto editoriale. Basti pensare al numero delle edicole rimaste chiuse per le disposizioni dei sindaci e agli effetti della clausura forzata sulle vendite dei giornali. Sarebbe stato necessario un piano straordinario di soccorso, ma, purtroppo, l’ordine delle priorità in Italia tutto tiene in considerazione tranne i precetti e gli obiettivi fissati in Costituzione.
Non si capisce, ad esempio, perché Alitalia, che tra l’altro penalizza costantemente il Meridione, debba ricevere finanziamenti miliardari a cascata, pur avendo dato prova in molti anni di una pessima propensione al buongoverno aziendale. Non si capisce perché lo stato debba farsi carico a oltranza dei buchi della cosiddetta compagnia di bandiera, la cui strategicità è solo un atto di fede, dal momento che nessun passeggero si sente menomato se sale a bordo di un velivolo di un’altra nazionalità. Non si capisce, tanto per essere chiari, perché Alitalia debba essere più importante dell’informazione.
Uno stato democratico che perdesse la sua (presunta) compagnia di bandiera non rischierebbe nulla in termini di garanzie democratiche. Si continuerebbe a volare su altri colori e nessuno avvertirebbe difformità e disagi. Provate a immaginare, invece, quale sarebbe il tasso di democraticità e di libertà di un Paese se la stampa ivi scomparisse o fosse costretta a un ruolo residuale. Soffrirebbe l’intera comunità, salterebbe la stessa democrazia, verrebbe snaturata la sua Costituzione. Se democrazia significa controllo da parte dell’opinione pubblica sulle decisioni di chi governa, quale struttura assolverebbe questo compito in caso di eutanasia dell’informazione scritta? Nessuna, dal momento che tuttora i giornali non si limitano a informare solo acquirenti e lettori, ma informano soprattutto, e paradossalmente, i loro diretti concorrenti (Tv, radio, social media eccetera).
Ecco perché lasciar vivere i giornali significa lasciar vivere la democrazia. A meno che qualcuno non si sia stancato di essa a causa della fatica di essere liberi. Non per tutti, infatti, la libertà, con annesse conquiste democratiche, rappresenta una gioia. Per tanti, è un peso da cui liberarsi al più presto.