Sventolano, stesi negli interni delle case, gli abiti della pandemia: pigiamoni e tute che hanno rivestito le membra inerti della clausura. Ma ora che - pare - l’Italia riparte… come ripartirà la famiglia?
Iniziamo dai più irriconoscibili: i figli. Quelli che nell’era del coronavirus sono apparsi come stelle nel firmamento della rassegnazione. Quelli che – ci sembra strano anche ricordarlo – abitavano le notti delle città, (mal)frequentavano raramente le proprie mura domestiche, interrompevano i loro silenzi con un «Io esco». Ci sono i figli di ogni età tra gli eroi della peste: a guardarli bene, il pandemonio della pandemia li ha attraversati sconquassando meno le loro vite rispetto a quelle delle persone più adulte. C’è chi dice che sia colpa/merito del web, che loro si sono rifugiati sempre più in quel mondo virtuale… Sì, può essere vero, ma non spiega tutta la capacità di adattarsi ai terribili mesi che abbiamo alle spalle e davanti a noi.
Scomparsi dalle strade, adolescenti e giovanissimi hanno trasformato le loro giovani vite e hanno riconquistato la famiglia. Chiusi in stanza? Sulle chat per ore? Anche. Ma non solo. Hanno videochiamato pure i nonni, hanno rimpianto la scuola e l’università vera, quelle fatte di sudori e di spintoni ma anche di baci e giocose ammucchiate sulle scale. Hanno imparato da un video-docente; hanno sostenuto esami e svolto compiti. Alcuni hanno aiutato le madri ormai senza colf, assaporato la cucina e la cena insieme e gustato il profumo del pane appena sfornato che non si era mai sentito in casa.
Avranno pure contestato, litigato, sbattuto qualche porta. Ci mancherebbe. Ma, nel complesso, hanno saputo reggere l’impatto con una situazione completamente impensabile. Hanno continuato a divorare serie Tv ad ogni ora? Sì, ma molti hanno anche divorato libri e esplorato dialoghi con i «congiunti», tanto per usare una parola governativa di moda. Hanno tollerato le voci dei genitori che negli incontri con gli amici sulle piattaforme web tipo Zoom gridano come ossessi; hanno tollerato la videodipendenza di padri, madri e nonni, capaci di scaricare ad alto volume tutti i più stupidi e arcinoti filmati sul virus.
La pandemia ha sdoganato buone e cattive abitudini in tutte le case. Ci attraversa e ci cambia: le madri che fanno ginnastica coi figli invece di scappare in palestra; i padri che non ricordano più nemmeno cosa sia l’uscita serale interminabile per il calcetto. Assenze trasformate in presenze. Telelavoro o niente lavoro, tragedie su tragedie.
Una crisi economica che inonda il Belpaese e lo mette a rischio ad ogni passo, salvando forse – laddove si può – gli affetti. Anche le mamme più stanche e sull’orlo di una crisi di nervi hanno annunciato con soddisfazione di aver riordinato finalmente la traboccante scarpiera dello stanzino. Altro che svaghi più o meno leciti; altro che distrazioni, altro che parrucchiere o unghie laccate di rosso porpora. La deprivazione sociale e la vicinanza familiare; l’interconnessione dei social ma anche quella tra esseri che un tempo passavano meno tempo insieme.
Tempo. Ecco la parola: il virus si è preso tutto, dalle vite umane allo sviluppo, dalla quotidianità al Pil, ma ci ha restituito qualcosa che ci facevamo mancare, facendo tornare il tempo alla definizione di Eraclito: «Il tempo è un gioco che viene giocato splendidamente dai bambini». Sembra un paradosso: la pandemia è un pandemonio, ma ci fa ripartire dalla voglia di giocare, quella che davvero ci permette di conoscere una persona, molto più di un’ora o una vita di conversazioni. E se ora in casa e fuori casa ci guardiamo di più negli occhi e ci comprendiamo meglio, forse è per effetto dell’unico miracolo inaspettato compiuto dal funesto virus.