Il dato di chiusura, ieri, della Borsa di Milano traduce in numeri la somma delle due grandi paure dell’uomo: ammalarsi e impoverirsi. E in entrambi i casi il fattore emotivo alimenta le cause e ingigantisce gli effetti. In economia, scienza sociale più che matematica, la fiducia è determinante. Così si spiega il prevedibile crollo verticale delle quotazioni a Piazza Affari e nelle altre principali Borse occidentali.
Quelle cinesi, invece, pur perdendo hanno fatto leggermente meglio: frutto delle incoraggianti notizie sul fronte delle guarigioni e, forse, anche di una forma di governo e di una società a forte impronta dirigista in economia, profondamente diverse rispetto alle democrazie europee. È più facile addomesticare notizie e dinamiche finanziarie disponendo di controlli anche invadenti sulla sfera del privato.
Dunque, quel che è accaduto esprime la convinzione che il contraccolpo sull’economia sarà duro e prolungato. Vendere titoli di società quotate, in questo modo così significativo al punto da farne crollare prezzi e quotazioni, esprime il timore che presto quelle aziende potranno trovarsi in difficoltà concrete. Insomma, un modo di abbandonare una casa prima che l’incendio la distrugga.
Nel disastro finanziario in atto c’è anche una delle tante, profonde, cicliche guerre del petrolio che ogni tanto sconvolgono le economie. Non dimentichiamo che la crisi del 2008 venne proprio innescata da una battaglia energetica che in quel caso sfociò in una serie di rialzi vertiginosi fino a toccare i 150 dollari al barile, per poi crollare nel 2014 a 27 dollari.
Ieri la quotazione era di 32 dollari. I Paesi estrattori vogliono ridurre progressivamente le produzioni per sostenere il prezzo, depresso dalla nuova crisi. Ma la Russia e altri alleati non sono d’accordo, anche per ragioni geopolitiche: l’energia è da sempre un’arma non convenzionale.
In questo scacchiere a crollare con precisione cronometrica sono i valori delle imprese collegate in qualche modo al sistema petrolifero.
Ma è solo panico? No, purtroppo. In una dinamica nella quale alla fine non si distinguono più cause ed effetti, l’attesa del ribasso genera ribasso essa stessa. E gli speculatori vanno a nozze in queste situazioni.
Le transazioni finanziarie ormai non si discostano molto dai sistemi di scommesse più noti. Così come posso puntare sulla sconfitta di una squadra di calcio, posso anche «scommettere» (il sistema tecnico è un po’ più complesso ma la sostanza non cambia granché) sulle perdite di un titolo piuttosto che dell’intero indice di Borsa.
Ed è quanto sta accadendo in queste ore, durante le quali i più spericolati ed esperti speculatori di Borsa si stanno arricchendo in ossequio al vecchio adagio popolare per cui «con guerre e tempeste, c’è chi si spoglia e c’è chi si veste».
Da varie forze sociali è partita l’invocazione alle autorità finanziarie e politiche europee perché prendano immediati provvedimenti: iniezioni di liquidità a sostegno di un’economia che si avvia a imboccare un nuovo tunnel del quale non si intravvede il percorso e la fine. Iniezione di liquidità significa soldi, a disposizione del sistema creditizio per sovvenzionare le imprese e per acquistare titoli di Stato e impedire l’avvitamento negativo «crisi disoccupazione depressione».
Qualcuno ha invocato perfino la sospensione delle attività finanziarie di Borsa, per evitare il contagio speculativo così come si chiudono scuole e locali pubblici per arginare quello virale. Ma in entrambi i casi dimentichiamo gli effetti collaterali della globalizzazione: il denaro non dorme mai, proprio come il virus, e si muove liberamente da una Borsa asiatica a una sudamericana, schiacciando ulteriormente le economie che dovessero improvvidamente decidere di chiudersi piuttosto che imparare a vivere secondo nuove regole, a tutela dei più deboli.
Da una Borsa che crolla si potrebbero trarre molti insegnamenti e non solo di carattere economico. Ma la storia, passata e recente, ci racconta che certe lezioni fatichiamo a impararle.
Non sarà facile per il governo italiano, ma anche per l’Europa e il resto del pianeta superare gli choc continui di questi giorni, anche perché nessuno sa quando la crisi da coronavirus si fermerà. Ci vorrebbe un’inversione di tendenza dei dati del contagio, che finora non s’intravvede (tranne, forse, in Cina). Più incertezza di così. E l’incertezza all’economia fa più danni di una guerra.