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Il tradizionale «movimento» a metà legislatura

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

Se lo sciopero della famescredita il Parlamento

A metà di ogni legislatura, immancabile come il panettone a Natale, spunta l’ipotesi del governissimo, ossia di un governo che comprenda quasi tutte le forze presenti in Parlamento

Giovedì 19 Dicembre 2019, 15:47

Fateci caso. A metà di ogni legislatura, immancabile come il panettone a Natale, spunta l’ipotesi del governissimo, ossia di un governo che comprenda quasi tutte le forze presenti in Parlamento. Il più delle volte non se ne fa nulla, perché se è difficile mettere d’accordo due o tre partiti, figuriamoci com’è complicato attovagliarne cinque o sei attorno a un tavolo. Per riuscire nell’impresa o, verrebbe da dire, nel miracolo, servirebbe un leader al di sopra delle parti, provvisto di una credibilità e di un carisma fuori dall’ordinario. Aldo Moro (1916-1978) era provvisto di queste qualità, infatti le sue doti di mediatore erano proverbiali, leggendarie.

Ma, dopo di lui, tutti i tentativi tesi a costruire una Grande Coalizione si sono consumati nell’arco di un mattino. Persino il tentativo unitario avviato nel 2011 dal professor Mario Monti, sulla scia di una grave crisi finanziaria internazionale e sull’onda del crollo di fiducia verso la finanza pubblica italiana (spread schizzato a quota 550), dovette arenarsi alla prima virata dell’esecutivo. A dimostrazione che i governissimi, per nascere e crescere, necessitano, come ogni iniziativa che si rispetti, di due condizioni: un programma sufficientemente condiviso e un regista accettato da tutti. Due condizioni impossibili da realizzare soprattutto nell’era dei social e dell’odiocrazia dilagante. I social rappresentano i principali ostacoli a una politica ragionata, concepita per raggiungere compromessi e intese accettabili. Basta un nonnulla sulla Rete per sabotare un’amicizia personale, figuriamoci un accordo politico. Di conseguenza, meglio lasciar perdere tutti propositi di comitati di salvezza nazionale. Svanirebbero dopo un nanosecondo.
La Rete, fra l’altro, ha portato con sé un guaio supplementare per la politica, esaltando l’ego di ciascun attore e mortificando ogni esigenza sistemica. La Rete è per natura divisiva, non inclusiva. E siccome la politica si fa più in Rete che in Parlamento (purtroppo), i risultati si vedono. Addirittura il Movimento fondato da un capo carismatico e selezionato secondo canoni rigidi, e inizialmente sottoscritti da tutti gli aderenti, adesso mostra più crepe di un palazzo colpito da scosse telluriche.
In teoria il M5S dovrebbe farsi in quattro o, per rendere l’idea, in cinque, pur di facilitare il lavoro del presidente del Consiglio.

Invece, la creatura partorita da Beppe Grillo, è afflitta da continui mal di pancia. Il gruppo parlamentare grillino sta sperimentando sulla propria pelle il limite di quella particolarità che pure ne avrebbe costituito l’ossatura fondamentale, finora vera carta vincente: la delimitazione temporale della rappresentanza politica, vale a dire lo stop all’attività politica, a tempo indeterminato, attraverso l’introduzione del tetto dei due mandati parlamentari.
Ora. Il pericolo più grave per la tenuta, ossia per la sopravvivenza, del Movimento e, per li rami, dello stesso esecutivo, più che dall’Europa e dalla posizione da assumere sul Fondo salva-Stati, più che dai dissapori sulla giustizia, proviene proprio dal sentimento di incertezza che pervade i gruppi parlamentari del M5S, i cui deputati e senatori ovviamente non si augurano di tornare semplici cittadini al termine della loro seconda legislatura. Il malessere, tra le schiere stellate, che accompagna parecchie votazioni dipende innanzitutto da questo stato d’animo, dall’impossibilità o quasi, di aspirare alla terza candidatura da inserire nel proprio cursus honorum. Se poi a questo macigno alto quanto una montagna si aggiunge la volatilità di alcune prese di posizione grilline, dall’Europa all’Ilva, dal gasdotto all’immigrazione, la quadratura del cerchio si traduce in un’impresa da titani. Pressoché impossibile.

Matteo Salvini sa qual è il tallone d’Achille (il tetto dei due mandati parlamentari secchi) della squadra di Di Maio e ogni tanto lancia segnali allusivi nel campo dei suoi ex alleati. Li lancia, in verità, anche in altre direzioni, vedi la mossa del cavallo protesa a portare il super-europeista Mario Draghi a Palazzo Chigi pur di dare scacco matto a Giuseppe Conte. Ma, da qui, a stilare un programma condiviso pronubo di una Grande Coalizione ne corre.
Oddio. Draghi avrebbe tutti i requisiti per svolgere il ruolo del Federatore, del Mediatore ideale. Ma le sue idee sull’Europa non piacciono (eufemismo) ai molteplici fronti sovranisti che sfilano in Italia. Idem le sue proposte sul risanamento economico del Paese.
Morale. Il governissimo oggi come ieri rappresenta il solito diversivo di ogni giro di boa di legislatura. Se ne parla per vedere l’effetto che fa. Poi, non se ne fa nulla. Com’è inevitabile. Se già sulle regole del gioco (a iniziare da quelle elettorale) si litiga all’infinito, immaginiamo sul resto. Risultato: in Italia non si fa molta politica. In compenso, se ne parla per riparlarne.

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