Un figlio perfetto come David, il bambino robot di I. A., il film che nel 2001 Steven Spielberg trasse dal racconto di Brian Aldiss, realizzando un’idea di Stanley Kubrick, scomparso due anni prima. Salvo poi gettarlo tra i rifiuti quando il piccolo essere artificiale assume una deriva del comportamento che mette a rischio le vite dei coetanei in carne e ossa.
Non è esattamente quello che è successo a Trento, ma la cronaca, ancora una volta rassomiglia all’invenzione narrativa. Perché a essere rifiutata, anche in questo caso, è l’imperfezione infantile, che distrugge l’iconografia del suggello di ogni felicità familiare. L’undicenne rifiutato dalla famiglia dopo una diagnosi di autismo e per questo affidato al Tribunale dei Minori condensa per l’ennesima volta la sconfitta sociale del mondo più avanzato, dove sembra che ogni vita sia tutelata e invece ormai imperversa un darwinismo da terzo millennio senza possibilità di scampo.
Il giovanissimo paria che si sono ritrovati davanti gli operatori di Casa Sebastiano non viene dall’estremo sud del mondo, non arriva sui barconi, non nasce nel degrado. La sorte o il caso gli ha assegnato un territorio che viene spesso indicato come esempio di quella funzionalità che manca da molte parti del Paese. Ma proprio in virtù di questa funzionalità, trionfare la sua estrema conseguenza: il rifiuto del campione «difettoso». Come nell’esilarante ma spietatamente ironica scena finale di Quo Vado, in cui Checco Zalone scherza con i genitori presentando prima la neonata africana e poi quella «di marca», bianca.
L’autismo, però, non si può liquidare con un rifiuto che sollecita un dibattito etico di portata enorme. Si tratta semmai di una questione che riguarda la cultura occidentale, dove da tempo si credeva nell’inclusione, nel sostegno allargato ai disagiati, nell’universo del politicamente corretto. Solo che, a quanto pare, è retorica e nient’altro. Sul piano concreto, quando c’è da accollarsi il destino di un consanguineo svantaggiato, prevale un criterio selettivo che sa di antica Sparta.
Lo esprimono a chiare lettere gli operatori della struttura cui è stato «recapitato» il bimbo indesiderato: «È venuto meno il patto di aiuto ai deboli, il mandato etico, ancor prima che costituzionale, fondamento di ogni società che voglia dirsi civile, di sostegno ai componenti più fragili delle nostre comunità».
Del resto, c’è di peggio. Nel 1997, lo psicologo forense americano Charles Patrick Ewing pubblicò il volume Fatal Families, famiglie fatali, esame delle dinamiche omicide all’interno delle mura domestiche. Lo studioso non lasciava dubbi in tema di probabilità statistiche. Così non stupisce vedere la donna che passa dall’impegno per il diritto all’aborto negli anni ‘70 alla ricerca frequentemente ossessiva della maternità, dove la frase «voglio un figlio» non implica sempre la bellezza del miracolo di una nuova vita da produrre con amore condiviso. Semmai una vena infantilista: il desiderio del bambolotto, del giocattolino.