Matteo Salvini è stato più rapido di un fulmine nel rispondere all’aut aut di Giuseppe Conte («Leale collaborazione nel governo o mi dimetto»). «Vogliamo andare avanti, la Lega c’è», ha postato su Facebook il Capitano del Carroccio. In verità, la sorte dell’esecutivo, più che al giudizio e agli atti dei due vicepremier, è appesa al verdetto dei mercati. Basteranno agli investitori nazionali e internazionali le parole del professor Conte e le assicurazioni fornite dai due azionisti della compagine di governo? Vedremo. I risparmiatori, coloro che sottoscrivono i titoli del debito pubblico italiano sanno, alla stregua di tutti gli elettori e osservatori, che nessun leader politico è così sprovveduto da accendere il fuoco della crisi per portare allo scioglimento delle Camere.
La conferma arriva dalla storia della Repubblica: giammai chi ha spianato la strada alle consultazioni anticipate ha ricevuto il premio elettorale, che si attendeva, dall’opinione pubblica. Ergo, non foss’altro che per scaramanzia, farsi cucire addosso l’abito dello sfascialegislatura, anche in questa occasione potrebbe rivelarsi una mossa piuttosto azzardata, per non dire autolesionistica. Di conseguenza, nessuno, tra Salvini e Di Maio, vorrà farsi incastrare nel ruolo di artefice del ritorno immediato alle urne.
Molto, perciò, dipenderà dai mercati, non a caso citati da Conte, come destinatari veri, più della stessa Europa, della confezione dell’imminente manovra economica. Se lo spread salirà, se la fiducia non ritornerà, governo e parlamento avranno vita breve. In caso contrario, la data del voto si allontanerà, anche se solo un inguaribile ottimista potrebbe scommettere dieci euro sulla durata quinquennale della rappresentanza di Camera e Senato.
Conte ha attribuito alla permanente eccitazione elettorale la causa della conflittualità endemica tra Lega e M5S. Di sicuro la febbre del voto non favorisce la solidarietà di governo, né la compattezza tra alleati. Ma stavolta la questione è più complicata, dal momento che M5S e Lega sono insieme soltanto a Roma (esecutivo nazionale) mentre si combattono in tutte le ammministrazioni regionali e comunali. Non solo. I due hanno sottoscritto, prima di designare Conte a Palazzo Chigi, solo un contratto, non hanno certo formato una maggioranza stabile, il che li porta a litigare su tutti i temi (molti) privi di un minimo di condivisione.
Ecco. Quanto può durare uno schema siffatto, fondato sul protagonismo dei due vicepremier che, a seconda delle situazioni, recitano, alternativamente, ora la parte di uomo forte del governo ora quella di capo effettivo dell’opposizione? A occhio e croce, come si dice e si prevede, non può durare molto, anche se ciò genera loro un vantaggio: toglie visibilità ai partiti di minoranza.
Conte se n’è accorto e prima di farsi trovare lui con il classico cerino acceso, il che equivarrebbe a farsi additare a responsabile dell’aborto della legislatura, ha cercato di mettere i due soci con le spalle al muro. Ripetiamo: sarà sufficiente?
Conte ha sollecitato i suoi ministri a non invadere il campo di competenza dei colleghi. Una parola. Di Maio e Salvini, vuoi perché entrambi vicepremier, vuoi perché entrambi leader dei partiti di riferimento, vuoi perché entrambi allenati alla comunicazione permanente sulla Rete, tutto potrebbero fare, e accettare, tranne che darsi una regolata e rassegnarsi a esternare solo sulle materie di propria competenza ministeriale. Né il premier potrebbe sanzionare le loro prevedibili fughe in avanti. Uno, perché il presidente del Consiglio italiano non dispone dei poteri (più robusti) dei primi ministri stranieri. Due, perché un minuto dopo, il governo crollerebbe come una casa terremotata. Tre, perché è la rivalità estrema, congenita al vicepresidenzialismo dilagante, a condurre inesorabilmente a un surplus di eccitazione, esasperata - direbbe Conte - dal susseguirsi degli appuntamenti elettorali.
Conte ha sottolineato i suoi ottimi rapporti con il presidente della Repubblica, che non è avaro di consigli. Chissà se è stato Sergio Mattarella a suggerire al capo del governo di uscire allo scoperto per mettere i condottieri di M5S e Lega di fronte alle rispettive responsabilità. Chissà.
Sta di fatto che, indipendentemente dal blitz del professore pugliese, l’agenda programmatica ricordata ieri dal titolare di Palazzo Chigi non sembra destinata a realizzare la quadratura del cerchio. Conte ha ribadito l’impegno a varare l’autonomia differenziata delle Regioni. Ma questa è materia esplosiva, non solo all’interno del governo, ma anche nei confini della Penisola. Che faranno i pentastellati e le forze politiche e istituzionali del Sud? Difficile che restino muti. Idem la Flat Tax: non tutto il Movimento di Di Maio sposerebbe l’idea centrale di Salvini. E la Tav, su cui il numero uno leghista non intende arretrare di un millimetro? Se il presidente della Camera Roberto Fico non ha chiuso la bocca sui rom, figuriamoci sull’Alta Velocità che non è mai piaciuta ai grillini. Del resto, non c’è problema previsto o imprevisto (vedi la strage sfiorata a Venezia per l’urto della nave di croceristi) che veda d’accordo i due contraenti di Palazzo Chigi.
Conte non lo ha dichiarato esplicitamente, ma il succo del suo ragionamento, e del suo desiderio, è il seguente: come sarebbe meglio per tutti se Di Maio e Salvini riducessero dell’80% la mole delle loro esternazioni. Ma, nel caso specifico, pretendere dai due vice la linea del quasi-silenzio, sarebbe come chiedere a Valentino Rossi di scendere dalla moto. Domanda impossibile da accettare.
Anche negli anni della Prima Repubblica gli appelli e gli ultimatum (o accordo o voto) verso gli alleati rissosi davano l’impressione di non cadere nel vuoto. All’inizio. Dopo pochi giorni, si tornava punto e a capo. Solo Giulio Andreotti (1919-2013) sosteneva che è meglio tirare a campare che tirare le cuoia. Ma Conte non dev’essere dello stesso avviso.
In fondo, se un premier va in tv e dice di essere pronto a lasciare se i suoi principali sostenitori continueranno a beccarsi per fare i primi della classe, vuol dire che, parafrasando la battuta di Ennio Flaiano (1910-1972), la situazione non sarà grave, ma di sicuro è seria. Quindi: non rimane che riavviare la resa dei conti in cabina elettorale.