Un pomeriggio di molti anni fa venne a trovarmi un’amica, che poco sapeva di me e del mio lavoro. Quando mi chiese cosa avessi da fare in quelle ore, alla mia risposta: «Studiare il pianoforte», replicò senza un filo di ironia: «Ma come, non hai già imparato a suonarlo?». In effetti, attorno al pianoforte (alla musica in generale, per la verità), resiste un certo mistero. Qualcuno pensa che imparare un brano di musica sia una cosa semplice e quasi immediata: si legge un articolo di giornale, e allo stesso modo si legge un brano di musica.
Se un pianista è bravo, poi, si divertirà a deliziare gli astanti con passaggi virtuosistici, che più o meno equivalgono a dei giochi di prestigio, o alle evoluzioni di un trapezista. Naturalmente il pianista “si allena” (questa è l’espressione prevalente), si tiene in forma, ma neanche più di tanto, in fondo ciò che conta è l’ispirazione, cioè quella espressione sognante che porta il pubblico a esclamare: «Ma guarda come “sente” la musica!».
In realtà lo studio è l’essenza stessa del nostro lavoro. Non potremmo suonare se non studiassimo, e studiare non è solo un’attività che si svolge al pianoforte.
Innanzitutto, già la semplice scelta di cosa suonare, di quali brani imparare, è di per sé un impegno non indifferente: si deve capire se un brano fa per noi, in quanto tempo si possa ragionevolmente imparare (ci sono opere che richiedono anni, prima di essere proposte in concerto), e magari a cos’altro accostare quella composizione.
Poi la lettura, che in certi casi è semplice, in altri casi estremamente impegnativa (come certi contrappunti di Bach o vertici di complessità come i Klavierstücke di Stockhausen, gli Studi di Ligeti, o la Sonata “Concord” di Ives). Alla decifrazione del testo si deve unire un’analisi semiotica, cioè la capacità di cogliere il “senso” di una scrittura musicale. Bach dà pochissime indicazioni, ad esempio, omettendo dinamiche e segni di espressione, che vanno aggiunti dall’interprete consapevole dello stile (o, come si dice, della “filologia”). Definire il suono giusto, il pedale più adatto, e le mille e mille sfumature espressive è un lavoro di ricerca estremamente lungo e faticoso, anche perché talvolta è l’errore, o il vagare, anche improvvisando, a illuminarci su una soluzione felice e riuscita.
Poi c’è l’aspetto digitale, in alcuni casi davvero complesso, che comprende momenti di sconforto, anche perché, come si sa, non esistono “app” per risolvere un passaggio, di fronte al quale siamo esattamente come duecento anni fa: niente tecnologia. Talvolta la soluzione di un problema tecnico è una sfida entusiasmante, perché è un po’ come trovare una password: una volta ottenuta, il sito, dapprima inespugnabile, si apre. Lo stesso vale con la “tecnica” pianistica, che altro non è che un modo per ottenere tutte le password di una composizione. Frutto di sapienza, esperienza, ingegno, fiuto, fortuna e soprattutto di una ostinazione assoluta. E tutto questo non è che l’inizio.
Perché poi bisogna consolidare, maturare, e infine dimenticare tutto questo castello per costruire un’idea di interpretazione, in cui il brano possa tornare alla sua originaria immaterialità. E però, oltre alla serenità, al tempo da investire, alla gioia del suonare, è fondamentale la vita. Che è studio, certo, ma non solo. Anzi, quando si suona è bene metabolizzare tutte le gioie, oltre che i dolori, della nostra vita. E le curiosità, le passioni, le umane debolezze: qualche volta assecondare chi pensa che “il pianoforte abbiamo già imparato a suonarlo”, non fa poi così male.