«Propongo le parole delle stele, / immagini non contestate d’un tempo / sepolto da spessi strati di silenzio, / i liberi segni riscoperti di antichi / ritornanti drammi non conclusi / nel semplice quadro inciso d’una pietra. // Parole senza più tremito di voce / o concitato spasmo delle arterie, / gesti fermi da millenni, passioni / calcificate, vicende scolorite d’amore / e di lotta, divelte dagli aratri meccanici / all’infocato rumore di settembre. // [...] Qui dalla valle dell’Indo per mare, / seguendo come i morti la via del sole, / con vele quadrate e lunghe vesti / talari, i Dauni primitivi non parole / ma una lenta cronaca di morte / affidarono alle pietre sui dossi delle dune». Così scriveva il poeta garganico Cristanziano Serricchio, nella lirica “Propongo le parole delle stele”. Pasquale Gadaleta (classe 1988), la cui mostra “Antiruggine”, visitabile fino all’8 agosto, è stata inaugurata ieri nella Galleria “54 – arte contemporanea” di Molfetta con un testo critico e la co-curatela di Augusto Ficele, attraverso le sue opere abbraccia il medesimo proponimento del poeta. Varcata la soglia dello spazio espositivo, infatti, verrete rapiti da una processione, un rituale susseguirsi di immagini il cui intento è quello di ricondurre una realtà ormai smaliziata, privata di miti e utopie, a una purezza di intenti, gesti, sentimenti tale da avvicinarsi all’onirico, al surreale.
Gadaleta, diplomatosi – in due livelli – in scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera, invero ben si destreggia anche con la pittura. La sua ricerca prende le mosse dalla sua terra, dall’arcaica “Apulia” e dal suo vetusto modo di rappresentazione, informandosi attraverso sculture in ferro saldato che richiamano i lavori di Giacometti e Manzù, tele che vedono Sironi quale riferimento primo, opere realizzate con materiali di risulta, cavalli greci in poliuretano e volti antropomorfi in pietra, timbri su carta velluto e smalti su tessuto, tutti intesi a restituirci l’umana ghiandola profonda che ci fa tutti uguali e particolari attraverso l’eterno e l’ogniddove. Eppure, nel groviglio di richiami e rappresentazioni che con acume connubia la maniera di raffigurazione peuceta, daunia e magnogreca agli studi dei maestri novecenteschi, a primeggiare è l’occhio di Gadaleta, un occhio più veloce della sua coscienza. Egli, difatti, scava con le unghie nella polvere per costruire un muro che lo ripari dalla baraonda contemporanea ma, mentre scava, vede tornare alla luce cocci di un mondo perduto. Frattanto che si domanda che farne, già se n’è innamorato. Dunque, li rielabora, li adatta a una lente per l’oggi così facendoli nuovi. Infine, appende al muro i risultati di questo lavoro – che è il muro dell’arte, il quale separa ciò che già è stato dalla novità –, un muro, però, che viene giù per il peso dei materiali. E allora bisogna ricominciare a scavare... Per strutturare pareti da infrangere, di volta in volta, per creare il nuovo; con il fine di realizzarsi sempre nuovi nell’autonomia del proprio sguardo. Questo deve fare l’artista, oggi. Questo, certamente, fa Pasquale Gadaleta.