«A me invece Roma piace moltissimo: è una specie di giungla, tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene», dice Marcello Rubini a Maddalena, a bordo della sua automobile, in una piazza del Popolo notturna e sensuale. È una delle memorabili scene che Federico Fellini girò per «La Dolce Vita». Imbeccato dalla visione dell’ultimo film di Nanni Moretti, «Il Sol dell’avvenire», che lo cita ampiamente, ho ceduto alla tentazione e l’ho rivisto a qualche di distanza dall’ultima. Non sono mai troppe, a sessantatré anni dall’uscita, con la sua pellicola «argento e nera» più che bianco e nera. «Questo tuffarsi nelle notti romane, d’estate, dentro il cuore della città, questo raccontarla mentre quasi si aveva l’illusione che attorno a te avvenissero continui suggerimenti, apparissero personaggi», disse Fellini ricordando i mesi – difficili, con il budget che lievitava di giorno in giorno e i contrasti con la produzione – della realizzazione. E Marcello Mastroianni: «Non credevo di lavorare. Ho vissuto sei mesi di totale abbandono, di felicità completa. Una notte da una parte, una notte dall’altra, tutti questi personaggi, queste figure, questi tipi, questi caratteri… c’era un calderone, bello, pieno di cose, la dolce vita. Io ci ho sguazzato dentro come se fossi stato realmente uno di quegli eroi immaginati da Fellini».
Tutto si scompone e si ricompone tra i vicoli deserti dietro la Fontana di Trevi, nelle geometrie metafisiche dell’EUR, lungo il mare, e poi nelle affollate feste che costellano il racconto. Legare, per quanto è possibile legare quelle che sono le sequenze sfumate di un lunghissimo sogno, era la missione di Nino Rota, il maestro, il compositore che Fellini scelse per i suoi film. Milanese di nascita, poi romano nella formazione – studiò al liceo Virgilio e all’Accademia di Santa Cecilia, dove conseguì il diploma in composizione musicale – e ancora e soprattutto pugliese in età più adulta, quando arrivò prima a Taranto, dove insegnò teoria e solfeggio al Conservatorio Giovanni Paisiello, e poi a Bari, al Conservatorio Niccolò Piccinni, che iniziò a dirigere a partire dal 1950. Lavorava tra la città e Torre a Mare, dove riusciva a concentrarsi al meglio, lavorando alle proprie composizioni così come alla creazione di un fermento artistico da cui trasse giovamento l’intera comunità. Un’impronta testimoniata ancora oggi, considerando che a Nino Rota sono dedicati l’auditorium del Conservatorio di Bari e la Sala Concerti del Duni di Matera, oltre che il Conservatorio di Monopoli.
L’incontro con Fellini arrivò nel 1952, quando aveva già scritto la colonna sonora di film per Alberto Lattuada, Mario Soldati e Luigi Zampa. Il sodalizio iniziò con «Lo sceicco bianco» e andò avanti fino a «Prova d’orchestra», pochi mesi prima della scomparsa di Rota. Nel mezzo, oltre a «La dolce vita», film come «8½», «Casanova» e «Roma». Colto e popolare, Rota si lasciava ispirare dalla tradizione regionale italiana e dal repertorio classico.
E se in «Roma» lasciava che la musica da strada messa in moto per le feste trasteverine si mischiasse al caos tumultuoso della folla, nella «Dolce vita» ecco la dolcezza di un motivo semplice, delicato, quel tratto melodico che è uno dei primi cinque che ti vengono in mente se chiudi gli occhi e ti chiedono di pensare al cinema in senso musicale.
Raccontò Fellini: «Io mi mettevo lì presso il piano, a raccontargli il film, a suggerirgli come questa o quell’immagine avrebbero dovuto essere commentate musicalmente; ma lui non mi seguiva, si distraeva, pur se annuiva. In realtà stava stabilendo il contatto con se stesso, con il suo mondo interno, con i motivi musicali che già aveva dentro di sé. Le sue ore più creative erano quelle che seguivano il tramonto, dalle cinque o le sei alle nove. Improvvisamente, nel mezzo del discorso, metteva le mani sul pianoforte e partiva, come un medium».