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Riesame di Potenza conferma: il clan dei rami delle famiglie Scarci (Taranto)-Scarcia (Scanzano Jonico) è mafioso

 
ALESSANDRA CANNETIELLO

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ALESSANDRA CANNETIELLO

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Il Riesame di Potenza ha rigettato i ricorsi dei difensori . L'inchiesta il 2 ottobre ha portato all’applicazione di 21 fermi tra le province di Taranto e Potenza

Mercoledì 20 Novembre 2024, 14:30

POTENZA - Il clan Scarcia-Scarci è un’organizzazione di stampo mafioso. Lo ha confermato il Riesame di Potenza che rigettando i ricorsi dei difensori ha confermato le accuse mosse dal pool di magistrati lucani ai due rami delle famiglie di Scanzano ionico e Taranto, finiti nell’inchiesta «Mare Nostro» che all’alba del 2 ottobre ha portato all’applicazione di 21 fermi tra le province di Taranto e Potenza.

Il collegio presieduto dal giudice Maria Stante, come detto, ha rigettato le istanze presentate dai legali del gruppo lucano: per i magistrati, infatti, gli esponenti del gruppo non devono tornare in libertà.

Nell’inchiesta coordinata dal pool di inquirenti composto dal procuratore distrettuale di Potenza Francesco Curcio, dal sostituto della Dda di Potenza Anna Gloria Piccininni e dai sostituti distrettuali Milto De Nozza, Sarah Masecchia e Marco Marano, i componenti del clan avevano imposto il pizzo nel tratto di mare tra la costa ionica pugliese e quella materana/metapontina, con il controllo che ne derivava della pesca professionale e di tutte le attività a essa connesse, anche attraverso la costituzione nel 2018 della cooperativa di pescatori Nereide. Proprio questa società, si legge nelle pagine ordinanza del giudice Rita Romano, «opera, sfruttando la capacità intimidatoria derivatale dalla notoria fama criminale del clan Scarci, infiltrandosi nel settore della pesca professionale sino ad assumerne il controllo, condizionando con atti, espliciti o impliciti di violenza o minaccia, le attività marinare nell’intero litorale tra la provincia occidentale di Taranto, Scanzano e Pisticci, attraverso l’imposizione ai pescatori del pagamento della cosiddetta “parte”, talvolta spacciata come risarcimento per danni riportati alla propria attrezzatura».

Secondo i magistrati gli interessi del gruppo si erano inoltre estesi alle attività della zona, anche attraverso la riscossione di tangenti e con la selezione e gestione del personale di sicurezza nei locali notturni e negli eventi. Un predominio che secondo il gip di Potenza, Salvatore Pignata, non necessitava di minacce costanti: l’organizzazione era talmente radicata nel territorio che il solo «blasone» del nome era sufficiente a ottenere il silenzio e la sottomissione di chiunque.

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