MASSAFRA - «Mi sento una cogliona, arrabbiata con me stessa, provo un gran senso di vergogna». La vittima dello stupro di gruppo avvenuto nella notte tra il 30 e il 31 agosto nelle campagne di Massafra, termina con queste parole la sua dichiarazione ai carabinieri.
Vergogna e rabbia contro se stessa per i fatti successi quella notte.
«Si tratta di frasi molto comuni nelle vittime di violenza sessuale, alla base delle difficoltà di denuncia». Carmen Palazzo è la psicologa del centro antiviolenza e sostegno donna dell’associazione “Alzaìa Onlus” e spiega che senso di colpa e vergogna sono conseguenze immediate delle violenze sessuali, caratterizzano la stragrande maggioranza delle vittime.
Vergogna, umiliazione, imbarazzo e senso di colpa sono dei meccanismi che si attivano quasi immediatamente. «Io sono nella parte più intima di me violata - chiarisce la psicologa -. Significa che una persone assume tutto il potere sul mio corpo. Ma teoricamente l’atto sessuale ha a che fare con il piacere, quindi in caso di stupro si vìola una dimensione che ha a che fare con il piacere. Io però non ero consenziente e quindi in qualche modo si attiva la vergogna di raccontare agli altri qualcosa che è accaduto nel mio intimo e che nel mio intimo è stato violato».
Poi entra in ballo la rabbia contro se stessi. «Il senso di colpa – sottolinea Palazzo - non è altro che una rabbia che si rigira su se stessi. Ho letto nelle dichiarazioni sul caso di Massafra che uno dei 3 dice alla fine, con fare finto amichevole “beh dai ora lasciamola stare la ragazza”. Questo è un atteggiamento che confonde e porta la vittima a chiedersi “ma è stata colpa mia se è accaduto questo?”. Il senso di colpa va immaginato come un meccanismo di difesa: nel momento in cui io vengo stuprata perdo tutto il potere decisionale sul mio corpo e rischio di credere di non avere più controllo su nulla. Credere che sia stata colpa mia, permette di mantenere ancora un po’ di controllo. È altrettanto doloroso, devi poi perdonarti, ma difende dall’impotenza più totale. Altrimenti si vivrebbe perennemente nell’angoscia».
Secondo Palazzo questo meccanismo si innesca soprattutto nei casi di stupri in cui non ci sono segni evidenti sul corpo della vittima o che avvengono quando la vittima ha assunto alcol, conosce lo stupratore o è stata lei stessa ad invitarlo ad uscire. «In questi casi - afferma - l’autocolpevolizzazione aumenta. Ma dobbiamo anche dire a queste donne che non è colpa loro. Anche a quelle che dicono “Potevo scappare”, non è vero: non si può scappare. Il corpo in quel momento risponde, a livello di sistema nervoso autonomo, con il freezing. Non si ha più la capacità di reagire. È il cervello che per difendersi si disconnette dal corpo».
Un’altra lettura è legata alla cultura in cui viviamo, gli stereotipi e i miti sullo stupro che tendono a colpevolizzare la vittima. Com’eri vestita? Quanto avevi bevuto? Lo hai illuso tu?
«Tutto questo – spiega la dottoressa Palazzo - porta la vittima a immaginare le conseguenze della sua eventuale denuncia. Si sente messa in condizione di non denunciare. Ma non è questa la normalità e non dobbiamo pensare che possa esserlo. Sono persone deviate e lo sono anche nel tentativo di manipolare la vittima (come nel caso di Massafra) con la svalutazione dell’atto. Quando le dicono “Abbiamo giocato” o “Eravamo consenzienti”, è brutalità e freddezza nel non assumersi la responsabilità del gesto, del crimine. Non sono in grado di provare empatia o emozioni. Quello - conclude - è solo un corpo da abusare con un impulso sessuale. Quella che viene sottomessa, per loro, non è più una persona».