TARANTO - È una prima volta per tutti. Per il Mediterraneo che si fa bacino di innovazione e futuro. Per l’Italia che compie un passo importante e concretissimo nella lunga marcia imposta dalla transizione energetica. E, non ultima, per Taranto che sul piano simbolico rovescia la percezione di città regina dell’antico industrialismo per aprire una frontiera inedita dalle grandi prospettive. S’inaugura oggi, infatti, nella rada esterna del porto della città jonica, «Beleolico», il primo parco eolico marino d’Italia e dell’intero Mare nostrum, realizzato da Renexia, società del gruppo Toto attiva nel campo delle rinnovabili, titolare del progetto e della relativa concessione per 25 anni.
L’impianto, arrivato all’approdo odierno dopo un iter lungo 14 anni, assicurerà una produzione di oltre 58mila Megawatt-ora pari al fabbisogno annuo di 60mila persone con un un risparmio di circa 730mila tonnellate di Co2. Un apporto che non sposta gli equilibri del mix energetico nazionale ma che, di fatto, segna un cambiamento di rotta, simbolico e reale, confermato dalla realizzazione in Sicilia, sempre a opera di Renexia, del progetto Medwind, parco off shore da 2,9 GigaWatt a largo di Mazara del Vallo Insomma, la strada è tracciata, sia nel metodo che nel merito, come spiega alla «Gazzetta» Riccardo Toto, direttore generale di Renexia: «Quello che abbiamo fatto a Taranto e stiamo facendo in Sicilia è valorizzare una tecnologia che può rendere il Paese più pulito ed energicamente indipendente. Le pale valorizzano un tratto di mare non utilizzato e non consumano il suolo, destinabile così ad altri usi. Le opportunità sono molteplici - argomenta - e del tutto evidenti. Ognuno deve fare la sua parte ma è una sfida che possiamo vincere insieme».
Direttore Toto, qual è, concretamente, il vantaggio di questa tecnologia?
«Utilizziamo una risorsa che è per definizione infinita, cioè il vento. Ma per definizione è anche pulita e accessibile a tutti. Questo ne fa una risorsa inclusiva. Credo non ci sia termine migliore: l’energia rinnovabile, con le tecnologie odierne, può diventare inclusiva e non più divisiva».
Le «divisioni» spesso prendono la forma di eterni conflitti con le associazioni ambientaliste. Quello tarantino sarà, tecnicamente, un near shore, un parco con sei turbine a 3 km dalla costa e altre 4 a poche centinaia di metri dal molo polisettoriale. Come avete disinnescato le tensioni?
«Premetto che giudico le opposizioni sempre salutari, in qualsiasi contesto e per qualsiasi progetto. Non abbiamo mai chiuso la porta a nessuno, né ai favorevoli né ai contrari, tenendo una linea coerente: con il territorio si parla sempre. Per una ragione semplicissima»
Cioè?
«Se porti avanti un progetto contro chi ti ospita possono succedere due cose: o alla fine non lo fai o, se lo fai, ma resti 25 anni in una casa dove non ti vogliono, la vita si complica parecchio. E invece la tecnologia può davvero non solo coesistere con l’ambiente ma anche contribuire a proteggerlo».
Voi come vi siete mossi?
«Abbiamo cercato di invertire il paradigma. La lezione che abbiamo appreso dalle iniziative sviluppate negli Stati Uniti ci ha insegnato questo: prima ascolti il territorio, prima ti rendi conto dei problemi e poi perfezioni la tua iniziativa. In Sicilia, dove, a differenza di Taranto, il progetto del parco lo abbiamo realizzato da zero, abbiamo condotto mesi di dialogo con le associazioni per capire l’impatto dell’opera. E lì parliamo di uno off shore flottante, cioè con pale galleggianti non fisse nel terreno e soprattutto a ben 60 km dalla costa. Eppure al confronto non abbiamo mai rinunciato».
E a Taranto?
«Siamo arrivati in un secondo momento e, dunque, a linee tracciate, con gli ambientalisti abbiamo valutato fosse utile concentrarci soprattutto sul dopo nella considerazione che ogni passo è stato fatto in piena conformità a leggi e regolamenti».
Il «dopo» in cosa consiste?
«Raccolta della plastica, monitoraggio dei cetacei, costruzione di un parco archeologico marittimo. Sono solo alcune tra le attività che abbiamo messo in campo per il cosiddetto post-operam»
Dal punto di vista economico invece cosa avete immaginato?
«La costruzione di una filiera innanzitutto in campo manutentivo. E, successivamente, nella costruzione di futuri parchi eolici per i quali vorremmo utilizzare manodopera e imprese locali».
Cosa serve per trasformare i parchi off shore da pionieristiche eccezioni in regola dello sviluppo energetico futuro?
«Quello di Taranto è il primo passo, ora bisogna iniziare a correre. E per correre servono sostanzialmente tre cose. Innanzitutto la sburocratizzazione dei processi autorizzativi, poi la creazione di un sistema di accumulo dell’energia e infine serve tenere al passo delle nuove tecnologie e dei nuovi impianti la rete nazionale di distribuzione. Senza questi tre passaggi sarà difficile compiere un definitivo salto di qualità».
Il parco cosa significa simbolicamente per la città?
«Da Taranto arriva un segnale per tutto il Paese: l’onda lunga delle politiche ecologiche può essere effettivamente cavalcata per favorire una nuova industrializzazione non più legata ai vecchi schemi. Inoltre è vero che si tratta, come detto, di un near shore ma si incastona in uno scenario dove sono presenti l’ex Ilva, la raffineria e il porto. Ci piace pensare che il parco ingentilisca anche lo skyline della città».
Se questa è la visione territoriale, per il destino energetico del Paese che messaggio lancia l’inaugurazione del parco?
«Le quantità di MegaWatt installate servono circa 60mila persone e dunque non si può dire che il progetto possa mutare, da solo, gli equilibri energetici nazionali. Eppure traccia una rotta. L’Italia, con i giusti investimenti, può davvero rendersi più indipendente dall’estero, soprattutto in un momento delicato come quello attuale. Tutto questo dà uno sbocco, fornisce la percezione che possa esserci una soluzione concreta al di là degli annunci e dei proclami. Lo ripeto, è un primo passo. Si tratta di continuare a camminare. Insieme».