«Ci sono i colpevoli, ma non ci sono vincitori». Michele Riondino, attore tarantino, e attivista nel comitato «Liberi e pensanti», non esulta per le condanne per «Ambiente svenduto» in primo grado, ma continua a sperare che qualcuno «si sporchi le mani, libero dai partiti, per salvare Taranto».
Riondino, che effetto le ha fatto la sentenza?
«Non c’è da festeggiare nulla. E’ stato dimostrato che noi società civile abbiamo avuto sempre ragione nel manifestare il dissenso nei confronti di una azienda e dei Riva, che hanno compiuto uno scempio ambientale e sanitario. Questa ragione ottenuta al processo non fa altro che dimostrare, se ce n’era bisogno, l’inopportunità della politica».
I Riva e Vendola insieme tra i condannati...
«Lo aspettavamo, lo auspicavamo. Ognuno è lì con il peso diverso della colpa che porta. Ma è stata dimostrata la loro colpevolezza a fronte di anni di abusi perpetrati sul territorio, sui lavoratori e sui cittadini».
La legge sulla diossina evocata come un mantra. Che peso ha avuto in questi anni?
«Questa legge è stata aggirata, usata come specchietto per le allodole. I controlli previsti, come dimostrato nel processo, erano “controlli controllati”, con qualcuno che cercava di addomesticare i dati. Se non ci fosse stata quella legge si sarebbe potuto inquinare di più? Non si sa. In Italia si fa la legge e si trova subito il modo per indebolirla».
Da tarantino quando ha avuto contezza che l’Ilva oltre che una grande fabbrica era un enorme e irrisolto nodo politico-sociale e sanitario?
«In tante tappe, come nel percorso di un bimbo seviziato: la violenza la riconosce man mano che cresce».
E’ anche memoria familiare?
«Mio padre tornava dalla fabbrica, con i suoi turni, mi portava i cornetti dopo il lavoro. Mia madre lavava la sua tuta. Sono ricordi romantici, ma la sua tuta era carica di veleni che ci intossicavano, i turni che sosteneva erano massacranti perché quando è arrivato Riva ha imposto una turnazione selvaggia. Perché mio padre andasse in prepensionamento io avrei dovuto accettare di prenderne il posto, pagando i suoi contributi. Ecco perché parlo di violenza».
Ha pensato dopo il verdetto a qualche compagno di lotta conosciuto in questi anni che non c’è più?
«No. Perché la sentenza non l’ho vissuta come un traguardo. Penso a chi non c’è più ogni giorno che passo davanti alla fabbrica, o quando vado ai Tamburi a prendere mia nipote da scuola, o quando rifletto su mio fratello che ha lavorato nelle cokerie e gli hanno diagnosticato un tumore».
Le condanne in primo grado arrivano dopo anni. Intanto la città…
«Poteva cominciare a ragionare all’alternativa. C’è lo studio dell’Eurispes dove si spiega che, se lavorassimo allo smantellamento dell’Ilva e alla bonifica, noi utilizzeremmo più forza lavoro rispetto a quella che è usata per produrre il poco acciaio. Avessimo iniziato dieci anni fa…».
Che ruolo hanno svolto nello spazio pubblico i movimenti?
«Sono stati essenziali, a partire dal comitato Liberi e pensanti, nel non far spegnere i riflettori nazionali sull’emergenza sanitaria e ambientale».
La politica: la sinistra ha fatto omissioni? Troppi illusioni dai 5s?
«La politica non ha mai voluto gestire il problema, perché è una materia problematica per la propaganda di un partito. La sinistra non ha mai parlato di lavoro vero, difendendo l’indifendibile. E noi accusiamo il sindacato di essere a braccetto con Confindustria, sempre disponibile a ogni tipo di compromesso per tenere alta la produzione. Ma il prezzo delle vite umane l’abbiamo pagato noi tarantini».
Si tornerà in piazza per Taranto?
«Non servono più i sit-in o gli slogan. Abbiamo l’unico mezzo di manifestazione efficace, ovvero ammalarci e morire, perché così nessun potrà nascondere l’emergenza, mentre i politici che si sono succeduti sembravano dei turisti in città. Su Taranto bisogna sporcarsi le mani e lo può fare solo un politico libero dall’obbligo di difendere il tornaconto di un partito».