di OSCAR IARUSSI
La vita, distrazioni per l’uso. Oppure... La vita, istruzioni per l’abuso. Oppure… La vita, astrazioni per il disuso. Fate voi, purché non vi perdiate Entro a volte nel tuo sonno di Sergio Claudio Perroni, appena pubblicato da La Nave di Teso, con una postfazione di Sandro Veronesi (pp. 174, euro 12,00). Abbiamo cominciato parafrasando un giocoso e famoso titolo del francese Georges Perec, La vita, istruzioni per l’uso, uscito giusto quarant’anni fa, con una dedica alla memoria di Raymond Queneau, che a sua volta piaceva tanto a Italo Calvino e a Umberto Eco.
Stop, non ci siamo. Messa così, c’è il rischio che il libro di Perroni appaia in ostaggio della cultura letteraria dell’autore, della sua inesausta passione per la lingua e le lingue (è tra i più apprezzati traduttori dall’inglese e dal francese), della sua vocazione alle sfide. Quali sfide? Per esempio, ha affabulato l’attesa di Ulisse e del manipolo di Achei nel cavallo di Troia (Nel ventre, 2013) o messo a confronto una sofferta decisione papale con la rampogna di un’altra/alta voce, intima e celeste, furiosa per la diserzione dal soglio di Pietro (Renuntio vobis, 2015, con echi delle dimissioni di Ratzinger).
Certo, una tela invisibile di rinvii, di miti, di aforismi e di esperienze è sottesa a Entro a volte nel tuo sonno. E una Penelope postmoderna balugina a bordo pagina o nello spazio bianco che suggella ogni singolo breve brano del libro, concepito per capitoletti (sono 142 se abbiamo ben contato). Tuttavia l’interstizio - Roland Barthes docet - apre a infinite possibilità nel mondo vissuto, al turbamento, al rimpianto, alla fuga in avanti o alla pausa contemplativa del lettore che si perde e si ritrova, rannicchiato nella mimesi. Sì, siamo lungo la frontiera tra rappresentazione ed essenza delle cose, tra sentimento e realtà. Il tumulto del cuore come ritmo del pensiero... Ecco l’audacia di Perroni. Innanzitutto nello stile, che, annota Veronesi, è poesia in prosa o, meglio, prosa poetica: «Evidentemente, la prosa poetica è lo strumento per riscrivere da capo il mondo – e così facendo, di salvarlo».
Già in Il principio della carezza (2016), il Nostro riservava un fascinoso breviloquio incline all’arguzia («Certe storie lasciano il sogno») o alle «fantasie» che, in corsivo, punteggiavano il dialogo tra i due personaggi del libro. Adesso quegli intermezzi diventano la materia del racconto, scandita di tanto in tanto da un «Madrigale». Entro a volte nel tuo sonno è pensoso, delfico, talvolta anaforico; è emozionante, appassionato, laconico e struggente nell’osservare il teatro dell’assurdità che rima con l’umanità. I testi custodiscono un nichilismo ben temperato di preludi e di fughe, di attese e di nostalgie, all’insegna dell’impossibile ritorno a un’infanzia «sgomenta», quando tutto accade «tra meraviglia e spavento».
«Avrei voluto conoscerti da bambina, seduto accanto a te nel banco di scuola, ti guarderei disegnare futuri a pastello e cancellare con la gomma quelli sbagliati». Ma è poi davvero impossibile quella regressione? «Gli anni non passano solo sul viso, sulle ossa, sullo sguardo, hai capito che s’invecchia anche nel pianto, tornando piccoli».
Qui la scrittura è antidoto all’assenza e al vuoto, è promessa contro la morte, o, quanto meno, è una tregua. La scrittura è un sogno che infine non salva, spiace dirlo, ma rincuora (per non parlare della lettura!) nei giorni «lasciati a combattere la ferocia del nulla, sulla carne viva». C’è l’amico sessantenne che ogni mattina va in piazza a guardare il mare con il cannocchiale per turisti - immaginiamo a Taormina, dove Perroni vive - e «gli vedi annidati negli occhi tutti i morti avuti, la fine di amici che credeva ancora sudati di nascondino, di amanti cui la vita non aveva mai asciugato il sudore da nascondino...». E c’è l’istante onnipotente che affiora in prima persona singolare (tenzone? canzone?): «Sono l’istante cruciale, l’istante tra il vederla e il salire su un altro taxi, tra il colpo e il fulmine, tra l’innamorarsene perdutamente e il mancarla per sempre, sono l’istante da cui dipende il tuo destino... Distruggo certezze, smentisco paure, sbaraglio speranze, sono la mente di ogni coincidenza, la punta avanzata della sorte, da quando l’uomo è nato ha dato più nomi a me che a Dio stesso, e non ha mai pensato di chiamarmi vita».
C’è un passo (Sapere la strada, il preferito da Veronesi) che, anche nella cadenza, a noi ricorda Il messaggio dell’imperatore di Kafka. Unica guida lungo la strada dell’invisibile, «la memoria della luce». Beh, leggetelo.