Fu da Peppe, la storica osteria del centro chiusa ormai da decenni, che per la prima volta vidi un poeta lucano col sigaro; anche se veniva da Roma che pare ne pullulasse. Almeno così scrive Antonio Mallardi, raccontando della libreria Ferro di Cavallo di Agnese Di Donato, la fascinosissima femme del bel mondo che da Ungaretti a Levi, da Moravia a Ezra Pound a Murilo Mendes, vi attirava il fior fiore dell’intellighentzia, non solo italiana, compreso Leonardo Sinisgalli, il quale così viene descritto:
«Lui era l’entusiasmo, l’intelligenza scintillante, competitiva, di un contadino lucano sempre arrapato. Ma anche un grande poeta […] Roma in quell’epoca era piena di “poeti lucani”. Li si riconosceva perché fumavano tutti il sigaro toscano, e avevano l’aria povera dei loro paesi. Sinisgalli era il loro contrario. Non fumava il toscano, era sempre tirato a lucido, elegante, patinato come un attore di varietà, sicuro della sua moneta, del talento riconosciuto dell’Eni, di “Civiltà delle macchine”, che trovava sempre il modo di citare, anche se gli chiedevi che ora era».
Ma allora come si arriva al ritratto del lucano-tipo, in cui Sinisgalli pare voglia orgogliosamente identificarsi, dove così si legge: «Girano tanti lucani per il mondo, ma, nessuno li vede, non sono esibizionisti. […] Il lucano, più di ogni altro popolo, vive bene all’ombra»?
In realtà, risalendo alla metà degli anni 70, posso spiegarmelo solo come un’inconsapevole adesione al levismo imperante e il suo racconto dei lucani, cupa massa di lividi zombie abbracciati alle loro disgrazie, che faceva vittime persino tra personaggi come il raffinato poeta Sinisgalli, l’egolatra esibizionista affamato d’arte e belle donne che non usciva di casa se non con almeno 100.000 lire in tasca; il doppio d’uno stipendio operaio negli anni 50 e alla faccia dei lucani che si contenterebbero di «masticare un finocchio o una foglia di lattuga»! Così non c’è nulla di più spassoso della folla di attori che si accalca a recitarla sul web, questa efferata pagina, perché ditemi voi se può mai esserci qualcuno più di un attore, seppur lucano, che al vivere nell’ombra non preferisca la luce abbacinante dei riflettori.
Ma anche noi, lucani comuni, prendiamo le distanze una volta per tutte da quell’amaro inno alla rinuncia, ignoriamolo proprio come ben ha fatto Biagio Russo nel suo bellissimo, documentatissimo, appassionantissimo «Il labirinto di Leonardo Sinisgalli» (Fondazione Leonardo Sinisgalli) , da dove ho attinto le graziose curiosità di questo pezzo. Ah, e il primo poeta lucano col sigaro che vidi era Vito Riviello, e fu per me e tutti gli avventori della storica trattoria potentina, rapiti dalle sue ilari giocose facezie, una serata di grande allegria – alla faccia dei volenterosi doloristi leviani!