I luoghi ricordano, conservano i passaggi, e spesso sopravvivono al nostro tempo. Quando mi chiedono se esistono palchi più importanti di altri per la musica dal vivo io rispondo quasi sempre di no.
Che un palco non detta le sorti di un concerto e che questa è invece una responsabilità delle persone, artisti e pubblico insieme. Ed essendo le persone per loro natura imprevedibili anche ogni palco potrebbe essere il migliore o il peggiore della stagione, a prescindere dalla sua fama.
Ma in Italia c’è un eccezione, un luogo in cui ogni mattone conserva un pezzetto di storia recente, di abiti iconici, di polveroni smossi e sedati, di parole che si sono fatte modi di dire, la colonna sonora delle nostre vite. Se ne sta decentrato in un luogo in cui non ci si trova mai di passaggio, a Sanremo ci si deve proprio voler andare. Ieri sera ho suonato al Teatro Ariston per il Premio Tenco, la più importante rassegna della Canzone d’Autore Italiana, nel cinquantesimo anno dalla fondazione del Club Tenco il cui statuto recita: “Lo scopo del Club è quello di riunire tutti coloro che, raccogliendo il messaggio di Luigi Tenco, si propongono di valorizzare la canzone d’autore, ricercando anche nella musica leggera dignità artistica e poetico realismo“.
Anche ieri, come ogni volta che sono venuta qui (la prima esattamente dieci anni fa per il Festival di Sanremo), ho pensato: è un teatro come un altro, molto più piccolo di come lo si immagina, e ho provato una tenerezza fortissima e impolverata per le sette lettere al neon del suo nome lampeggiante che svettano sull’ingresso principale.
Ma perché allora il cuore batte così forte? E perché proprio ora le ginocchia sono instabili?
È per la folla che lo abita, anche quando il sipario è chiuso.
È per quel realismo poetico che trasforma il luogo della scomparsa di un grande artista nello spazio destinato alla sua immortalità.
Per me venire qui è stato come scalare la montagna più alta del mondo.