SAN MARTINO D'AGRI - Il suo impegno artistico è focalizzato sul recupero delle tradizioni e della musica popolare. Rientra in quest’ottica un progetto che ha ottenuto un grande successo la scorsa estate e che si consolida quest’anno diventando permanente sul territorio. Il cuore dell’idea è San Martino d’Agri dove oggi, alle 17, nell’ex convento dei Frati minori cappuccini, sarà presentata la nuova stagione de «Il paese abitato», format ideato da Caterina Pontrandolfo, cantante e artista lucana, considerata una delle voci più intense e originali della musica tradizionale italiana, paragonata a Lisa Gerrard e definita la Callas della musica popolare. Oltre a Pontrandolfo interverranno all’incontro il sindaco di San Martino d’Agri Mario Antonio Imperatrice e Angelo Maria Cudemo, consigliere comunale.
Si tratta di un evento che incrocia teatro, canto, comunità e racconto. «Tutto è nato nel 2021 - dice Caterina - dall’incontro con l’associazione Vincenzo Marinelli. In quel momento - aggiunge l’artista - ho cominciato a entrare in contatto con il paese e con la sua comunità. Lì ho presentato un mio concerto sui canti popolari proponendo una piccola attività di laboratorio per la ricerca di canti locali».
Ecco la scintilla...
«Sì, è stato il pretesto per ascoltare i racconti, le biografie di chi vive nel paese e di chi è andato via ma è tornato. Ho intervistato persone anziane che mi hanno raccontato di una realtà che non c’è più. Parole innervate dal rammarico per una comunità che si sta, purtroppo, dissolvendo».
Ci spieghi, dunque, come si sviluppa il progetto.
«San Martino d’Agri, come tanti paesi dell’entroterra, ha il problema dell’abbandono dei luoghi. Il senso è di abitare questi luoghi con le storie e i canti del territorio raccolti attraverso le testimonianze sul passato del paese, dal lavoro del ciclo del grano alla devozione. Con un gruppo di abitanti abbiamo fatto un laboratorio per poter restituire al paese stesso le storie raccolte».
Qual è l’anima del progetto?
«È quella di entrare in una relazione profonda con le nostre comunità, raccogliendone le memorie, i canti, le storie; trasformarle e restituirle in racconto e teatro, e rinsaldare così il legame con la propria storia e il proprio abitare. Il teatro, il canto, la comunità dunque come un ritorno alla vita, alla relazione, come energia che attraversa i nostri corpi e ci apre all’amore per le nostre comunità e all’agire per il bene di tutti e di tutte. Un’arte della felicità, della mitezza, del calore umano».
Quanto si sta sviluppando a San Martino d’Agri in fondo è replicabile un po’ ovunque in Basilicata, dove tutti i paesi stanno assistendo allo spopolamento...
«È vero. Quest forma di lavoro artistico e di approccio antropologico può essere portato ovunque. All’origine dell’idea c’era proprio il sogno di poterlo esportare, ma va anche detto che questo tipo di progetto ha senso solo quando si radica nel territorio».
Ha pensato comunque di calibrarlo in altre realtà?
«Assolutamente. Pensi che il titolo «Il paese abitato» l’ho utilizzato per la prima volta a Trivigno. Ogni paese può essere protagonista di questo format. L’evento restituisce quanto viene raccolto attraverso la ricerca, le storie, i canti, le biografie. Tutto viene proposto in una forma di teatro che io chiamo “teatro della felicità e del calore umano”. È un teatro che utilizza cose molto semplici, che cerca la relazione tra le persone».
Il materiale raccolto a San Martino d’Agri in questa operazione di recupero della memoria l’ha in qualche modo sorpresa?
«È stato un lavoro straordinario che ci ha consentito di riscoprire canti sfuggiti al lavoro di ricerca di De Martino. Ma, soprattutto, abbiamo dato luce a una realtà segnata dall’emigrazione fortissima e dall’amore dei suoi figli emigrati che sono i primi, tornando d’estate, a impegnarsi perché questa comunità non muoia. Qui ho trovato un’attenzione molto profonda per la comunità, senza nulla togliere a ciò che accade negli altri paesi».
Dopo il successo delle rappresentazioni della scorsa estate, quale sarà la novità dell’edizione 2023?
«Diventa un’attività permanente da gennaio a ottobre, non solo estiva. Riprenderemo i momenti festivi delle tradizioni, seguiremo una sorta di calendario rituale e festivo per dargli nuova linfa attraverso il teatro e il canto. L’obiettivo resta quello di ricomporre la comunità attorno ai propri momenti di festa, agli eventi sacri, privati e pubblici».
Come si svilupperà il programma?
«Attraverso quattro eventi teatrali e musicali nel corso dell’anno, sempre ovviamente con questa mia prerogativa di messa in scena del canto e delle memorie».
Ci sarà un qualcosa, all’interno dei racconti che ha registrato, che l’ha emozionata di più?
«Tante cose. Ma una storia mi ha colpito più di tutte: lungo il fiume Agri il demanio consentiva di coltivare gli orti. Nei racconti degli anziani viene descritto un vero e proprio paradiso, una terra che produceva tutto, pomodori, peperoni e patate. Altre problematiche hanno determinato, nel corso degli anni, aspetti che hanno determinato il fenomeno dell’emigrazione. E proprio dagli emigrati, molti dei quali sono andati in America, arrivano storie e racconti particolarmente toccanti».
Per sintetizzare il progetto, c’è un processo di acquisizione della memoria che poi viene «messa in piazza»...
«Esattamente così. Trasformando i racconti attraverso la musica in un momento aggregativo. È bellissimo poter restituire quei canti che la gente del posto ha dimenticato o non ha mai ascoltato. Bellissime ninne nanne, ma anche la canzone del soldato che veniva cantata dalle donne e dai giovani quando partivano per la guerra. Senza dimenticare le romantiche serenate. Insomma un patrimonio di canti che viene restituito alla comunità».