8 marzo a Potenza, un mega manifesto all'ingresso della città con 24 volti di donne
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La recensione
Leonardo Petrocelli
14 Febbraio 2021
Il Covid è un ospite collettivo che ha messo a ferro e fuoco la società occidentale, proprio quella che si credeva invincibile – protetta com’è dalla sua armatura digitale – e che ora si trova a fare i conti con «la grande umiliazione» descritta impietosamente dall’antropologo Francesco Remotti. Ma ci sono ospiti diversi. Meno mediatici, più intimistici. Non collettivi, ma individuali.
Niente «ce la faremo» gridati dai balconi, solo un «ce la farò» urlato con rabbia dal fondo di sé. Lo testimonia il sofferto e orgoglioso racconto del calabrese Giuseppe Santoro, cardiologo ospedaliero al Policlinico di Bari, già al secondo libro sulla propria esperienza. Lui è, suo malgrado, il padrone di casa e l’ospite abusivo («lui mi guardò con un ghigno ironico ed entrò, senza chiedere il permesso») è il Parkinson, «malattia che ti cambia la vita ma non te la toglie». Giuseppe Santoro e l’ospite (Gagliano edizioni, pp. 115, euro 15), come da sottotitolo, è la «cronistoria di una convivenza con la diversità» che inaugura la collana Diversity della casa barese. «In realtà la diversità va trasformata in opportunità – spiega l’editrice Daniela Gagliano, in apertura del volume -. Diverso, dal latino diversus, significa volto altrove, voltato in altra parte e quindi volgere lo sguardo verso insegnamenti e schemi diversi da quelli che la società ci abitua ad avere».
E una sfida come il Parkinson, destinata a tirare fuori il meglio di sé e il peggio degli altri, può essere affrontata solo con un atto innaturale di straordinaria forza e indicibile coraggio: accettare l’ospite. Rifiutarlo non serve, fingere che non esista nemmeno. Lo scivolare verso l’oblio è un’opzione che l’io ferito non merita di abbracciare. E allora non resta che la cosa più difficile. Accettarlo, farci i conti, sapere che ha già vinto con la sua sola presenza ma senza dargliela vinta. È quasi un paradosso, ma è anche l’unico punto di equilibrio da cui continuare il viaggio.
Santoro, tra poesia e prosa, fra aneddoti e testimonianze, trascina il lettore nel rimosso del nostro quotidiano, in quel dolore carsico che la società dell’efficienza, della giovinezza e della bellezza non riesce a metabolizzare. «Ho capito dopo l’enfasi e il coinvolgimento iniziale – scrive l’autore – che il mio Parkinson non interessa in realtà a nessuno». È la solitudine dell’uno, nessuno e centomila pirandelliano applicata alla malattia. Ma se intorno si fa silenzio, dentro infuria la battaglia. E Santoro, da malato e da medico, traccia un sentiero interiore a disposizione di chiunque sia costretto a percorrerlo ma anche di chi solo voglia gettare lo sguardo, senza distoglierlo, sulla battaglia dei tanti guerrieri del proprio quotidiano. Quelli che accettano e rilanciano. E accettare vuol dire continuare a camminare e a lottare. Vuol dire continuare a vivere. «Vuol dire continuare a sorridere nonostante il tremore».
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