MATERA - Le associazioni anti racket chiedono i danni al clan, ma il comune di Policoro no. Nel corso della prima udienza del processo scaturito dalla maxi inchiesta «Mare Nostro» che ha smantellato il clan Scarcia-Scarci e i traffici illeciti sull’asse Puglia-Basilicata, l’Ente lucano ha infatti chiesto di costituirsi parte civile solo contro l’abusivismo edilizio, ma nessuna richiesta di risarcimento per i danni di immagine subiti dal Comune a causa del clamore dell’inchiesta giudiziaria. Una scelta fatta invece da due associazioni che hanno chiesto danni decine di migliaia di euro e annunciato che sarà eventualmente utilizzati in favore delle vittime del gruppo.
Il Comune, invece, ha chiesto di chiedere un risarcimento solo per un capo d’accusa: l’inchiesta ha portato alla luce che la stazione di pesca di proprietà comunale che era stata oggetto di un finanziamento regionale per la ristrutturazione e l’ampliamento dell’area, era stata assegnata alla «Nereide» cooperativa di pescatori - di facciata, per gli inquirenti – nata nel 2018 dall’unione delle due famiglie. Un bando aggiudicato attraverso documentazione autocertificata dalla società i cui vertici societari erano stati individuati in Giuseppina Scarcia e Francesco e Pietro Scarci, senza alcun precedente penale al momento dell’assegnazione. Un altro requisito, però, erano le garanzie fideiussorie per l’intero periodo di locazione e che non erano mai state presentate al comune. La struttura era stata dunque utilizzata in maniera illecita. Inoltre, da quanto emerso dalle carte dell’inchiesta, erano stati realizzati allacci abusivi alla rete elettrica e idrica comunale, che garantivano l’erogazione delle forniture ad alcune attività commerciali dietro il pagamento di denaro al gruppo.
In aula, tuttavia, sulla costituzione delle parti civili i difensori hanno sollevato alcune eccezioni e il collegio di magistrati ha riservato la decisione per la prossima udienza fissata a settembre.
Sono 19 gli imputati, difesi dagli avvocati Pasquale Blasi, Nicola Cervellera, Marcello Ferramosca, Andrea Maggio, Salvatore Maggio ed Enzo Sapia, nei confronti dei quali lo scorso aprile è scattato il giudizio immediato: tutti, tranne due imputati, devono ora rispondere anche dell’accusa di associazione mafiosa. I due clan si erano spartiti non solo la signoria sul mare, ma avevano anche allungato le mani, secondo l’accusa, su numerose attività economiche del territorio lucano e tarantino, imponendo il proprio «blasone criminale».
Le compagini tarantino-lucana guidate rispettivamente da Andrea Scarci e Salvatore Scarcia operavano sotto le mentite spoglie di una cooperativa virtuosa di pescatori e negli anni avevano esteso i loro interessi anche al controllo delle “licenze” delle attività della zona, alla riscossione di tangenti e alla gestione della security nei locali e negli eventi.