Vito Procacci è un medico. Un medico che è scomparso all’improvviso nel ratto di una morte assurda e inimmaginabile. È (non riesco a dire «era») un medico bravo. Ma non basta: esemplare, era esemplare, per la sua grande umanità emozionante e deontologica. Vero, un medico vero. Quello che non si stanca di fare il medico e che affronta il vergognoso balzello impostogli per aver lavorato instancabilmente, nel tempo di una pandemia, fuori dagli orari di un’imbecille burocrazia, da uno Stato che non riesce a costruire un civile mondo sanitario. Basti un aneddoto: Vito Procacci fu visto mangiare con il paziente renitente al cibo, per spronarlo con un paterno esempio al capezzale.
Dedico a lui con affetto la replica di questo mio articolo de «Lessico meridionale» di un anno fa. A lui e ai medici tutti.
«Ha digitato freneticamente sul cellulare il numero del medico di famiglia, senza consultare l’agenda: lo sa a memoria. E ha segnato anche i numeri altri, quelli dello studio, dell’ambulatorio, della moglie. Comunque, è rintracciabile dappertutto, nel telefono, sulle rubriche, sul calendario di Frate Indovino, sul centrino del termosifone, sul libro delle ricette. Tuuu, tuuuu, tuuuu. Non risponde. Neanche ai numeri azzannati dall’elenco suddetto dell’ipocondriaco.
E che fa, è uscito di sabato sera? E per andar dove con questo tempo da lupi? È vero, ci sono 24 gradi in questa serata di primavera tardiva e di precoce estate, fate voi, ma non si può mai sapere. E se, improvvisamente si mette a piovere? Meglio non fidarsi, il raffreddore è sempre in agguato, per non parlare dell’influenza. E se fosse un tardivo riaffacciarsi del Covid? Ma, perché non li ha fatti i richiami? Accidenti! Ma lo aveva convinto all’astinenza la portiera dello stabile di fronte che ha un cognato che ha una amica sposata ad un autista no-vax e aveva lasciato correre.
Tuuu, tuuu, tuuu. «Pronto». La voce del medico è calma al limite della sonnolenza. Finalmente: «Dottore ho un terribile prurito al fianco destro, ma anche al fianco sinistro. Ora che ci penso: anche al torace». Senza neanche salutare, snocciola i sintomi che hanno innescato la telefonata. Il dottore emette borborigmi.
«Dottore che sarà? Perché non viene subito da me?». Vuole, l’ipocondriaco, la visita del medico di famiglia, il benemerito. Lo ha chiamato, ha tentato anamnesi e racconto dei sintomi al telefono, ha reclamato immediatamente diagnosi, terapia e prognosi. Poi quel quotidiano eroe della pazienza lo ha fermato con una proposta: «Non mi pare niente di grave. Domani pomeriggio sarò da lei». Ma a lui non basta: domani pomeriggio? Così tardi? E io come passo la notte? No, subito deve venire, subito. Non accetta ragioni. Che importa se ha da fare, se sta per andare a letto, se è stanchissimo, lui o lei sono più importanti. Insistono ancora dopo che il dottore ha già detto che andrà, il tempo di vestirsi e uscirà. Come sarebbe vestirsi? E che è, nudo? Ma come si permette di non essere in camice bianco anche alle nove di sera, a casa sua? Si muova, ne va della loro pelle, della loro salute!
Tutti quei brufoli, poi, quei dolori che stringono come una cintura non li lasciano in pace e non può essere, come dice il medico, roba da poco, da tanto poco che ne possiamo parlare domani, con calma. Come, con calma? E che ne capisce lui? Lo lasci decidere ai «malati» se ci vuole calma o fregola. Intanto si precipiti. Che importa se si sono fatte le dieci di sera, se è domenica e se il dottore ha appena avuto un figlio. All’ipocondriaco interessa il medico di famiglia e non la famiglia del medico.
E il dottore arriva. E comincia la procedura: le domande, la visita meticolosa, la palpazione, l’auscultazione, il rituale dei respiri e dei colpi di tosse, il trentatré, eccetera eccetera. Si fa confessare il menu degli ultimi giorni, la torrida mangiata di peperoni o la sbafata di frutti di mare, nonché le ampie bevute nella movida più caotica della città per tre serate di fila, le libagioni torrentizie, il mezzo pacchetto di sigarette bruciato nei polmoni.
E il dottore medita, riflette, bofonchia. Prende tempo. Sorride. E quando sorride cambia i tempi del suo fare e del suo muoversi: si affretta con gesti spediti e sicuri, rassetta membra e organi, ripone ferri e strumenti, chiude astucci e valigetta. Poi sentenzia. E lì, a quel punto, arriva la liberazione del malato vero e il sollucchero voluttuoso dell’ipocondriaco deluso. Il malato vero, rassicurato, rifiata, ascolta e pondera. Rivestendosi medita buoni proponimenti e guarda con gratitudine il medico che sentenzia che non si tratta del fuoco di Sant’Antonio, ma di un semplice eczema. E gli raccomanda di stare a dieta e di smettere di fumare. Diciamo la verità: in cuor nostro pensiamo che sia merito suo, del nostro fidato medico di famiglia se non è il Fuoco di Sant’Antonio, abbiamo fatto bene ad insistere perché venisse. Ha constatato che la vaccinazione contro l’Herpes zoster da lui prescritta si è rivelata provvidenziale.
Per l’ipocondriaco è diverso: «È colpa sua», del dottore, se non è il Fuoco di Sant’Antonio. Adesso lo liquida con un grazie frettoloso e incredulo e, appena sarà uscito, chiamerà un altro medico.