Seguo in televisione le cronache del cerimoniale del giuramento del nuovo governo di fedeltà alla Repubblica e alla sua Costituzione: sobrio, essenziale. Anche un po’ noioso. Non vola una mosca nel salone ornamentato: i due corazzieri in alta uniforme vigilano su un silenzio rotto solo dalla parlantina mormorata della formula sacrosanta e impegnativa del giuramento, recitata, a volte, emozionata sempre, dei giuranti cui il premuroso Segretario generale del Quirinale non manca di segnare con un dito lo spazio ove il giurante deve porre la firma impegnativa della ritualità democratica.
La notarile pignoleria concede uno spazio umano, quasi infantile al dito e al rito. Ne sono passate di cerimonie della politica democratica dal tempo dei tempi degli anni cinquanta, quando consideravo, ero un adolescente curioso, il comizio una forma di spettacolo assai seducente.
Il comizio in genere e non il comizio di questo o di quel partito. La televisione non c’era e se c’era, dormiva e se non dormiva, faceva dormire quando si occupava di politica, quando, con le tribune politiche, se ne occupava fuori dall’arengo garantito dell’unico telegiornale. Faceva dormire noi ragazzi ai quali sfuggiva il fascino di quel tono colloquiale, irrigidito dal rituale delle norme, ci annoiava quel parlare quieto e, anche allora, «politichese» di cui ci sfuggiva il senso. Cominciavano dicendo con impeto: Gentili elettrici ed elettori. Di rado dicevano «Cittadini». A me piaceva la parola «cittadini». E i comizi mi piacevano anche per questo. Oltre che per l’enfasi, il torrido appellarsi agli entusiasmi, gli scampoli di eloquenza, l’oratoria focosa. Io ascoltavo tutti: comunisti, missini, monarchici, socialisti e socialdemocratici, democristiani. Questi ultimi, erano, spesso, noiosi. Il mio giudizio è apolitico, s’intende, ricorda solo la mia adolescenziale valutazione tecnica. «Compagni, lavoratori, elettori. E, poi, cittadini e cittadine». I candidati itineranti, le madonne pellegrine della democrazia bambina, dovevano mandare a mente il nome del paese dove venivano scaricati dalla Fiat «millequattro» per guadagnare il palco illuminato dove gracchiava l’altoparlante, perché se lo avessero sbagliato, quel nome, il successo se lo potevano scordare. Se a Gravina ti fosse sfuggito un «mi stanno a cuore i problemi dei lavoratori di Grumo», eri finito. Ma altre insidie dovevano scansare, i tribuni. Una volta, nella mia Bitonto, nell’enfasi oratoria dell’appello, un tizio che si candidava non ricordo più per quale microscopica lista di dissenzienti dei dissenzienti, leggendo, si lasciò andare ad un «Elettori ed elèttrici». Proprio così «elèttrici».
Quando finiva un comizio, si spegnevano le luci e gli spettatori, camminando istintivamente al passo della marcia finale, raggiungevano l’altra postazione per ascoltare il prossimo comiziante e, alla fine di tre o quattro esibizioni, s’accendevano interminabili discussioni, che, quasi sempre, come tema avevano la perizia oratoria.
Poi i «cittadini» andavano a dormire. I «lavoratori» s’alzavano presto. I «compagni» dovevano meditare sulla speranza di un futuro più giusto. Meditavano, giustamente, anche di notte.
Nei romanzi e nei film affrescati sullo scenario della Rivoluzione francese si incontrava la parola Cittadino come appellativo livellante del cognome. Era la sanzione definitiva a carico dei titoli onorifici e nobiliari tanto in odio dal secolo dei lumi e delle emancipazioni. Erano tollerati i titoli frutto di corvée accademiche o professionali: Cittadino dottore, detto del cerusico, cittadino avvocato per il leguleio e cittadino generale per rivolgersi al militare di rango. Mancò poco che, con l’appannarsi degli ideali giacobini, si desse del «cittadino imperatore» a Napoleone.
Ricordo che, ai tempi, non poi così lontani della mia infanzia, io abbia amato il termine cittadino che sentivo usare solo quando si dava di piglio al linguaggio della politica. E sui manifesti del sindaco, ancora compare quel vocativo in neretto come ai tempi del dopoguerra, un lungo dopoguerra che si mescolò con la guerra fredda e che fece familiarizzare con i partiti politici le cui sorti sono state compromesse dal tramonto della «prima» Repubblica.
A proposito: va detto che non si sa chi abbia deciso, e quando, che sia finita e che ne sia sorta una seconda. Questa storia di numerare le Repubbliche non produce niente di buono. Comunque dei e ai cittadini mi piace parlare, oggi. Nella speranza che si recuperi il valore, non montagnardo, né illusoriamente egalitario della parola, ma la condizione di emancipazione dalla sudditanza, la liberazione dalla moltitudine della «ggente» eterodiretta e dei consumatori, clienti, spettatori, telespettatori e cittadini digitali. Oggi il nuovo governo è in carica e i cittadini che lo vogliono, i cittadini che sperano che ci restituisca il primato della politica alta, i cittadini che credono nei valori che animano le istanze e le volontà non stiano a guardare lo spettacolo.
Possono esercitare il diritto più utile: possono controllare. Scegliere. Mi accorgo che, forse, ho fatto un comizio. Ebbene si. O cittadini.