LECCE - Le aziende pubbliche di trasporto pugliesi sono letteralmente «bloccate» e continuano a incassare le (inevitabili) sentenze sfavorevoli dei giudici del lavoro su sospensioni e licenziamenti dei loro dipendenti, trasformati in carta straccia per un «vizio» formale ora ritenuto insuperabile dalla Cassazione. Insomma, se un ferroviere o l’autista di un bus si rende responsabile di una condotta disdicevole (aggredisce un superiore, offende un viaggiatore, si assenta dal servizio), può passarla liscia. Il punto è la mancata composizione del consiglio di disciplina, l’organismo previsto dal regio decreto del 1931 per ratificare i provvedimenti nei confronti degli autoferrotramvieri: una norma speciale che va al di là delle tutele dello Statuto dei lavoratori e che, sei anni fa è stata virtualmente abrogata perchè è «risorta» un giorno prima dell’entrata in vigore della legge di conversione.
Tale organismo ora è stato azzerato dopo una recente sentenza del Consiglio di stato che ha dichiarato l’incompatibilità del presidente del consiglio di disciplina, un giudice civile del tribunale di Trani (il dott. Elio Di Molfetta), individuato da un decreto del Governatore Emiliano del 2020 come vertice di tutte le aziende di tpl regionali. Una vicenda che la Gazzetta ha raccontato alcuni giorni fa, fornendo i particolari sulla decisione di Palazzo Spada arrivata al termine di un braccio di ferro amministrativo tra il magistrato tranese (per l’incarico aveva diritto solo a un rimborso spese in caso di trasferte fuori sede) e il Csm che ha negato l’autorizzazione.
Una decisione che ha colto di sorpresa i vertici delle aziende di trasporto, ormai decise a prendere posizione tentando di sollecitare la Regione. Perchè tale situazione si stallo sta lettaralmente paralizzando l’attività disciplinare delle società. A conferma della preoccupazione degli addetti ai lavori, vi è la riunione del direttivo dell’Asstra di Puglia e Basilicata, convocata giovedì per sollecitare una soluzione perchè, adesso, si è in presenza di un «vuoto» regolamentare di cui i giudici del lavoro non possono che prendere atto. Motivo che richiederebbe comunque un intervento della Regione.
Insomma, se fino a qualche settimana fa esisteva comunque un consiglio di disciplina, adesso tale organismo non può operare per assenza del suo presidente che, per legge, provvede alla sua convocazione. E se ciò non accade, viene violato il diritto di difesa del lavoratore. E persino il tentativo di «sanare» tale vizio, ritenuto formale, con un indennizzo (tra 6 e 12 mensilità) anzichè la reintegra, sembra destinato a tramontare relativa. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione alcuni giorni fa, con una sentenza (15355/2023) relativa al caso di un lavoratore della «Sgm», l’azienda di trasporti del comune di Lecce, licenziato circa dieci anni fa (nel 2014). I giudici dedl Supremo collegio hanno annullato con rinvio una decisione della Corte di appello salentina che aveva confermato la sentenza di primo grado del tribunale di Lecce con la quale era stata dichiarata la nullità della destituzione (licenziamento) del lavoratore: pur sancendo la cessazione del rapporto di lavoro, i giudici avevano assegnato un indennizzo di sei mensilità applicando una delle alternative previste dal Jobs act. Gli ermellini sono stati categorici: la norma del 1931 non è derogabile se non per legge. La motivazione scritta dal relatore Gualtiero Michelini non lascia spazi a dubbi: i giudici di appello dovranno riscrivere la sentenza, tenendo conto della massima tutela prevista per il lavoratore: la reintegra. Il che, tradotto, significherebbe il pagamento di circa 10 anni di differenze stipendiali oltre a un risarcimento.