LECCE - UniSalento ama lo “straniero”. L’Ateneo salentino ha una quota di personale accademico straniero al di sopra del dato registrato a livello nazionale negli anni che vanno dal 2011 al 2019. Infatti non scende mai al di sotto del 4,6 percento raggiungendo il valore di massimo nel 2012, con il 6,3 percento di personale accademico straniero sul totale. Lo certifica Arti Puglia con uno zoom sulla presenza di prof provenienti dall’estero analizzando lo stato dell’arte degli atenei pugliesi raffrontandoli con la situazione a livello nazionale.
Negli altri atenei regionali, l’Università di Bari, in tutti gli anni considerati, ha potuto contare almeno sul 2 percento del personale accademico di nazionalità straniera. Una presenza che favorisce la mobilità studentesca da diversi Paesi come testimonia Rosita D’Amora, docente di Armenistica, Caucasologia, Mongolistica e Turcologia a UniSalento e delegata del rettore per la Mobilità internazionale.
«L’Università del Salento, negli ultimi due anni, ha potenziato le sue politiche di internalizzazione che si dirigono in due direzioni: la partenza dei nostri studenti affinché possano completare la loro formazione all’estero con progetti mirati oppure con Erasmus. Attraverso le esperienze all’estero si acquisiscono competenze che poi possono essere riportate in sede una volta che si conclude il periodo di mobilità; al tempo stesso UniSalento ha dato una grande importanza e ha cercato di potenziare quelle che sono le capacità di internazionalizzazione in sede.
L’obiettivo è di attirare verso l’Ateneo salentino studenti che provengono dall’estero. Sono stati lanciati programmi che mirano ad avere la presenza stabile degli studenti provenienti da altri Paesi del mondo. Uno mette a bando 30 borse di studio ogni anno. Negli ultimi due anni sono arrivati a Lecce sessanta studenti da diversi Paesi: Pakistan, India, Zambia».
Il dato sulla presenza di prof stranieri a UniSalento è tanto più significativo se si considera che la percentuale di prof stranieri è superiore a quella italiana e anche a quella della Spagna che nel 2011 aveva una quota di poco inferiore al 3 percento, ma nel 2019 ha raggiunto il 4,2 percento. «Per avere un benchmark con un Paese simile all’Italia – si legge nell’analisi di Arti Puglia –, in Spagna la corrispondente percentuale nel 2019 si è attestata al 5,9 percento e nel periodo considerato non è comunque mai scesa sotto il 4,3 percento, con un incremento persistente nel tempo».
La presenza dei prof che arrivano da altri Paesi è importante perché dà valenza alla ricerca in quanto facilita quella internazionale e poi «un’istruzione terziaria di qualità è una precondizione necessaria per una crescita regionale sostenibile ed armonica, soprattutto per quei territori in ritardo di sviluppo.
Per tale motivazione, le politiche a favore dell’istruzione terziaria sono centrali nelle agende pubbliche di gran parte delle regioni in Europa. Per supportare le politiche pubbliche di istruzione superiore e migliorare così i sistemi educativi mediante un accesso più agevole all’informazione e al confronto comparato con esperienze di altri Paesi, la Commissione Europea ha predisposto il Registro Europeo sull’Istruzione Terziaria (European Tertiary Education Register, ETER) già a partire dal 2014».
L’internazionalizzazione dell’Ateneo porta vantaggi e migliora la ricerca
«L’internazionalizzazione dell’Università è un vantaggio e migliora la ricerca, la didattica e aiuta lo sviluppo delle imprese». Dall’alto della sua delega rettorale alla Proiezione internazionale, Gennaro Scarselli, visiting professor all’università di Bath e all’università di Dublino e professore di Costruzioni aerospaziali a UniSalento, mette in evidenza le luci che si accendono su UniSalento grazie a una presenza in uno scenario internazionale.
Professore Scarselli, proiettarsi in uno scenario internazionale quali vantaggi dà a UniSalento e cosa eventualmente perde?
«I benefici sono molteplici e sono stati codificati con una serie di indagini condotte da Comitati universitari preposti all’internazionalizzazione. Il primo beneficio, associato all’internazionalizzazione, è il miglioramento qualitativo dell’insegnamento e dell’apprendimento. Per quanto riguarda il secondo aspetto, a incidere positivamente è la circostanza che lo studente e il docente che operano in uno scenario internazionale sono, per forza di cose, indotti a confrontarsi con un sistema formativo diverso da quello tradizionale. L’effetto netto è di un miglioramento complessivo dell’Ateneo. Il confrontarsi con le problematiche internazionali, dei vari Paesi nei quali studenti e professori vanno a operare, fa sviluppare una maggiore consapevolezza: sia delle conquiste fatte, sia delle problematiche in essere nello scenario internazionale».
Qual è il vantaggio per gli studenti che frequentano UniSalento?
«Per gli studenti in particolare, questa maggiore consapevolezza delle dinamiche internazionali si può tradurre in un maggiore impegno a trovare soluzioni in una scala globale. Un altro beneficio, sicuramente riconosciuto all’internazionalizzazione è il rafforzamento dei rapporti collaborazione tra i vari Paesi e anche lo sviluppo di capacità e competenze che possano essere spese in un contesto internazionale formando persone che possono alimentare la cooperazione tra gli Stati e travasare questa nelle imprese che oggi sono chiamate a lavorare in uno scenario sempre più globalizzato».
E il rischio di perdita di identità culturale quanto è reale?
«Quando si parla di identità, il rischio di annullarla, mitigarla o perderla è soltanto apparente perché lavorare in un contesto internazionale, tenendo sempre presente quali sono le specificità della cultura – in particolare quella salentina e in generale quella italiana –, conservando questa specificità arricchendola dei contributi che derivano dal confronto con le altre culture: non significa perdere, ma paradossalmente esaltarla attraverso l’incontro con altre identità. La cultura salentina e meridionale, nel confronto con altri mondi ne può uscire fortificata».
Il commercio globalizzato ha fatto perdere l’unicità dei territori che oggi propongono un’offerta che si trova dappertutto penalizzando l’artigianato. È un bene o un male difendere la propria identità?
«Conservare la cultura e le tradizioni è un’operazione che deve nascere spontanea e non deve essere forzata. Vengo da una terra, Napoli, fortemente legata alle tradizioni. Ovviamente l’aspetto commerciale legato alle grandi marche e alle tradizioni è qualcosa relativo al commercio e non c’è molto da fare. Per l’artigianato servono politiche mirate a conservare le specificità culturali. Bisognerebbe salvaguardarle, nei limiti del possibile, ma se non c’è una spinta dal basso volta a conservare le piccole botteghe che poi chiudono per effetto della presenza di grandi marche vuol dire che si tratta di un processo ineluttabile che bisogna percorrere e non è detto che sia un male».
Dove si trova la radice della propensione di UniSalento ad avere una così forte presenza di docenza straniera?
«Operare in uno scenario internazionale permette all’Università di acquisire una visibilità che va oltre i confini nazionale e ci consente di partecipare a progetti di ricerca e formazione internazionali. La ricerca, attualmente, specie in campi come l’ingegneria, la matematica, la fisica non può essere svolta nel chiuso delle nostre nazioni, ma ha bisogno di connettersi con la realtà globale».