Sabato 06 Settembre 2025 | 08:17

Un inviato, Dubcek e la solidarietà di Bari

 
Annabella De Robertis

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Annabella De Robertis

Dai giornali un aiuto alla generazione dei «senza politica»

La fine della Primavera di Praga raccontata, a caldo dal fronte, nell’agosto di 56 anni fa sulle pagine della «Gazzetta»

Mercoledì 21 Agosto 2024, 09:59

Cinquantasei anni fa, nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968, carri armati sovietici entrano nella capitale cecoslovacca e mettono fine alla Primavera di Praga. Le truppe del patto di Varsavia, dodici anni dopo la sanguinosa repressione in Ungheria, stroncano il tentativo compiuto da Alexander Dubcek di riformare dall’interno il regime comunista. «Come Hitler trent’anni fa» titola La Gazzetta del Mezzogiorno del 22 agosto.

«La Cecoslovacchia vive il secondo grande dramma della sua storia. Fu Goebbels che ne annunciò l’invasione nel 1939 quando il nazismo decise di incorporarla nel Terzo Reich di Hitler. Ora è la volta dei Russi che credono di scorgere una nuova minaccia all’ordine in Cecoslovacchia, in un territorio in cui anche essi sono vitalmente interessati», si legge sul quotidiano. Salito al potere nel gennaio 1968, Dubcek stava portando avanti infatti un programma di moderate riforme, basato sul decentramento economico e politico, sulla rinascita dei sindacati e sulla libertà di stampa. I Russi però temono che l’esempio della Cecoslovacchia possa diffondersi nel resto dell’Europa Orientale. Truppe sovietiche, tedesco orientali, polacche, ungheresi e bulgare, senza alcun preavviso, violano le frontiere ed entrano a Praga quasi senza incontrare resistenza: la popolazione reagisce in modo non violento, memore del sangue versato a Budapest nel ‘56.

All’alba il primo ministro Dubcek e gli altri membri del governo vengono arrestati. Il giorno dopo l’operazione, l’inviato della Gazzetta, Piero Novelli, dal confine austriaco riesce rocambolescamente a superare la frontiera e ad arrivare nella cittadina di České Budějovice, nella Boemia meridionale: «Sono giunto al valico di Neuen Geinberg, presso la cittadina austriaca di Gmund, verso le 2 del pomeriggio. Dalla parte ceka la bandiera issata sul pennone, accanto alla casamatta della dogana, è a mezz’asta, in segno di lutto nazionale. Mi accoglie un capitano della polizia di frontiera. Parla correntemente l’inglese, controlla il mio passaporto e vede che sono stato a Praga una decina di giorni fa, quando la città di San Venceslao respirava l’aria della libertà, del progresso. “Lei è giornalista; i russi sono a cinque chilometri da qui – mi dice con aria sconsolata – hanno eretto un blocco stradale. La fermeranno sicuramente”. “Capitano, mi lasci provare – rispondo – vado a cercare notizie. In Occidente, spesso, è difficile discernere il vero dal falso quando si tratta di situazioni come queste”. Il capitano mi guarda sorridendo: “Anche qui siamo in Occidente; l’Oriente, però, lo troverà a cinque chilometri da qui. Ho ordine di non lasciare passare i giornalisti”. Tuttavia, ha l’aria mortificata. D’improvviso mi chiede: “A lei interessa proprio passare di là?”. Gli dico di sì. Il capitano si guarda intorno. Non c’è nessuno. «Ed allora passi, torni nel giro di un’ora”».

Così Novelli riesce ad arrivare a České: «La piazza della cittadina è quasi deserta. Sul monumento c’è una bandiera tricolore, alcuni cartelli che inneggiano a Dubcek, alla libertà. Nessuno li ha tolti. Ad un’edicola di giornali c’è una vecchietta con accanto a sé il transistor acceso. La radio, adesso, trasmette la voce di uno speaker che legge il notiziario. Non riusciamo a comprendere il significato del discorso, ma è chiaro che chi parla non è uno speaker di professione: forse uno studente, forse un operaio, uno di quei coraggiosi che continuano ad informare i cecoslovacchi attraverso le emittenti clandestine. Più tardi, la notizia ci è stata riassunta da un giovanotto che incontriamo in un caffè. La radio ogni momento invita la popolazione alla calma. Dice di non accettare le provocazioni, di avere fiducia nel socialismo cecoslovacco e nel suo capo, Dubcek. “Il nostro popolo vuole che torni alla guida del Paese. Non potranno fare nulla contro di noi: resisteremo per mesi, per anni se sarà necessario. Senza usare le armi. Il popolo cecoslovacco è paziente. Ha imparato ad esserlo in anni e anni di sofferenza. Non faremo come gli ungheresi nel ‘56. La lezione è servita a tutti i popoli dell’Est”».

Intanto, nel nostro Paese domina lo sgomento per l’aggressione sovietica: anche a Bari un corteo ha percorso le principali strade per manifestare solidarietà nei confronti dei cecoslovacchi, cui hanno partecipato tutti i rappresentanti dei movimenti politici e studenteschi. «Il sangue di Budapest si rinnova per le vie di Praga», «Ieri Budapest, oggi Praga, domani?», si legge sui cartelloni. In pochi mesi le riforme messe in atto dal governo Dubcek saranno annullate e nel gennaio 1969, il giovanissimo Jan Palach si darà fuoco in piazza San Venceslao, a Praga, in segno di protesta.

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