Domenica 07 Settembre 2025 | 01:14

Il popolo ucraino disse no all’Urss

 
Annabella De Robertis

Reporter:

Annabella De Robertis

Il popolo ucraino disse no all’Urss

Il riferimento è alla decisione presa il 24 agosto 1991 dal Parlamento nazionale ucraino che aveva proclamato la sovranità assoluta dello Stato, pochissimi giorni dopo il fallito colpo di Stato messo in atto da ultraconservatori contro il leader del Cremlino Gorbaciov e la sua politica riformatrice

Sabato 02 Dicembre 2023, 10:23

«L’Ucraina abbandona Gorby»: trentadue anni fa il popolo ucraino decide di uscire dall’Unione sovietica. «Da poche ore sono state chiuse in Ucraina, una delle 12 Repubbliche ex sovietiche, le urne poste negli oltre trentaquattromila seggi allestiti in ogni centro abitato di un paese grande due volte l’Italia e con una popolazione pari all’incirca a quella della Francia», si legge su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 2 dicembre 1991. Il giorno prima si è tenuto il referendum che determina un ulteriore passo in avanti nel processo di dissoluzione dell’Unione sovietica. «Confermate la proclamazione dell’indipendenza dell’Ucraina?»: è questa la domanda a cui gli elettori sono chiamati a rispondere.

Il riferimento è alla decisione presa il 24 agosto 1991 dal Parlamento nazionale ucraino che aveva proclamato la sovranità assoluta dello Stato, pochissimi giorni dopo il fallito colpo di Stato messo in atto da ultraconservatori contro il leader del Cremlino Gorbaciov e la sua politica riformatrice. «La Gazzetta del Mezzogiorno» annuncia in prima pagina il risultato inequivocabile. «Alle quattro del pomeriggio la percentuale dei votanti nelle città occidentali era dell’81.88 percento, una partecipazione altissima che indica la consapevolezza per un voto in grado di modificare il destino dell’ex Unione Sovietica e perfino la geografia politica dell’Europa».

Per la prima volta nella storia dell’ Ucraina sono presenti osservatori inviati da diversi Paesi occidentali. Il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov, insieme a quello russo Boris Eltsin, hanno dichiarato, tuttavia, di non poter «immaginare la futura Unione senza l’Ucraina». La vittoria del «sì», a detta dei due leader, non comporta automaticamente l’uscita della Repubblica dalla futura unione. Insieme al voto per il referendum gli ucraini sono stati chiamati a eleggere anche il presidente della Repubblica: vincerà il favorito Leonid Kravchuk, già presidente del Soviet Supremo, alfiere dell’indipendenza e di una politica di mercato dopo il fallimento del golpe di agosto. Oggi, trentadue anni dopo la conquista dell’indipendenza, l’Ucraina, mentre è costretta a difendersi dall’invasione russa, è un Paese candidato all’ingresso nell’Unione europea.

«La Gazzetta del Mezzogiorno» del 3 dicembre 1943 riporta in prima pagina la notizia dell’offensiva aerea alleata in atto in Olanda e nel Belgio. Non si legge neanche una parola, però, su quanto avvenuto la sera prima a Bari. Il 2 dicembre, infatti, incautamente il porto barese, principale base dei rifornimenti dell’VIII Armata britannica, è perfettamente illuminato, nonostante l’obbligo di oscuramento. Alle 19.30 un raid tedesco, dopo aver colpito diverse zone della città, si concentra sul porto e provoca l’affondamento di circa 20 navi alleate. Eisenhower descriverà quella del 2 dicembre ‘43 a Bari come la più grave perdita inflitta da un attacco aereo all’esercito americano, nell’intera campagna del Mediterraneo e in Europa. Ma ciò che accade quella sera a Bari non è solo un bombardamento.

Una delle navi colpite, la “John Harvey”, trasporta, oltre ad armi di ogni tipo, bombe contenenti un gas letale: l’iprite. L’utilizzo di armi chimiche è vietato: pertanto, il tentativo americano di tenere nascosta la presenza del “mustard gas”, aggrava il bilancio del disastro, provocando centinaia di morti nelle truppe alleate. La censura alleata, dopo l’esplosione, impedisce la diffusione della notizia del bombardamento attraverso i mezzi di informazione, ostacolando l’adeguato soccorso dei feriti e aggravando terribilmente il bilancio delle perdite, non soltanto militari. Molti soldati muoiono dopo il raid perché inconsapevolmente esposti all’iprite: il personale sanitario, non allertato, non può offrire tempestive cure per le contaminazioni. L’attacco tedesco colpisce anche il borgo antico e il quartiere murattiano: vengono distrutte un gruppo di case a ridosso della Caserma Regina Elena, sulla via di Santa Chiara, ed alcune abitazioni vicino alla Cattedrale. Si conteranno, alla fine, più di 200 vittime civili. Sulla «Gazzetta» compare un primo necrologio solo il 4 dicembre: si leggono i nomi di Carmela Inchingoli e di sua figlia Maria, senza alcun accenno, tuttavia, alle cause che hanno determinato la loro tragica morte sotto le macerie in via Andrea da Bari 40.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Marchio e contenuto di questo sito sono di interesse storico ai sensi del D. Lgs 42/2004 (decreto Soprintendenza archivistica e Bibliografica Puglia 18 settembre 2020)

Editrice del Mezzogiorno srl - Partita IVA n. 08600270725 (Privacy Policy - Cookie Policy - - Dichiarazione di accessibilità)